Un giorno, era ancora una bambina, Barbara Mazzolai, nel prendersi cura dell’orto di famiglia, si accorse che le zucchine prendevano strade misteriose e procedevano tenendosi vicine, senza sbagliare un colpo. Erano in grado di orientarsi. Fu quella sapienza a ritornarle in mente quando, ormai grande e biologa, si incaponì per studiare ancora e diventare ingegnera. Voleva costruire un robot in grado di studiare il suolo. Nacque così il suo «plantoide»: un dispositivo che utilizzava le strategie del mondo vegetale per scrutare «quel che abbiamo sotto i piedi». Non fu subito accettato dalla platea degli scienziati (perlopiù maschi), ma presto gli scettici si dovettero ricredere. Le piante interagiscono e mettono in atto un sistema complesso di comunicazione fra loro e così il plantoide poteva agire magnificamente anche «da fermo»: serviva solo un finanziamento per la sua nascita. Che un giorno arrivò per email.

Nel libro Ragazze per l’ambiente, pubblicato da Editorialescienza, scritto da Vichi De Marchi e Roberta Fulci, con le illustrazioni di Giulia Sagramola (pp. 140, euro 16,90), che segue il precedente Ragazze con i numeri, sfilano dieci storie di altrettante scienziate che stavolta hanno dedicato tutti i loro sforzi e la loro intelligenza al nostro pianeta, adoperandosi per arrestare le diverse catastrofi che incombono. Dai pesticidi all’estinzione di specie animali fino al consumo indiscriminato delle risorse, ognuna si è applicata in un campo dell’ecologia. Non di rado, hanno avuto vita difficile in un parterre tutto di uomini, poco propenso ad accettare la scienza declinata al femminile. Come è accaduto a Anne Innis Dagg, la giraffologa, anzi colei che ha scritto la «Bibbia delle giraffe», che andò a pedinare gli esemplari in libertà nel Sudafrica degli anni Cinquanta sfidando le convenzioni sociali e poi, una volta rientrata in Canada, non riuscì mai a conquistare un posto fisso all’università, continuando a finanziarsi progetti e ricerche da sola, senza mai desistere. Caitlin O’Connell, invece, andò in Africa negli anni Novanta. I tempi erano cambiati e per lei e Tim fu meno avventuroso occuparsi della loro passione: gli elefanti. Caitlin, nascosta in un bunker mentre registrava i movimenti dei pachidermi, ebbe l’intuizione giusta. Gli elefanti, come gli insetti, comunicano con piccolissime vibrazioni che trasmettono attraverso il terreno, onde sismiche per noi impercettibili. Sono animali meravigliosi, messi a rischio per il valore commerciale dell’avorio delle loro zanne e lei e il marito Tim sono diventati negli anni dei paladini che combattono al loro fianco contro il bracconaggio e anche per evitare i conflitti con i contadini per lo «sfrutttamento» del territorio che condividono.

Maria Klenova fu un’altra scienziata coraggiosissima. In un’epoca di guerra civile, agli inizi del Novecento, raggiunse Mosca per continuare l’università. Fu la mossa giusta, nonostante ancora si combattesse per le strade tra rivoluzionari e non. Poté così imbarcarsi sulla nave Perseo, che navigava nelle acque gelide del Mar di Barents. La sua era una missione scientifica e all’equipaggio sembrava assai strano avere a bordo una donna.

Maria Klenova voleva mappare i fondali oceanici, le fosse, le pianure, i dossi di quel pezzo di mare Artico dal fascino mitologico. Ci riuscì e nel 1933 consegnò la sua speciale «cartina» che poi le permise di scrivere manuali di geologia marina. Come donna però dovette da principio rinunciare all’Antartide: domanda rifiutata. Poi, ci furono solo paesaggi di ghiacci per lei. Uno particolarmente alto, in Antartide, porta oggi addirittura il suo nome.

Non temeva il freddo neanche Susan Salomon. Il suo obiettivo era quello di sensibilizzare sui cambiamenti climatici analizzando il «buco nell’ozono». Il Polo sud era il banco di prova perfetto per i suoi esperimenti e lei andò lì, fra i pinguini e le nuvole polari stratosferiche. Capì il meccanismo e lo spiegò. In fondo, ha vinto: nel 1987 venne siglato il protocollo di Montréal «grazie alle nostre acrobazie nel gelo della base McMurdo», come spiega Susan alla giovane Sofia avida di sapere. E dal 2016 quel buco ha cominciato a richiudersi. C’è una speranza di rimedio alla follia umana, allora.