L’uscita di Cavallo Denaro (Cavalo Dinheiro) anche se in poche sale, quelle rimaste a accettare una qualche scommessa col cinema (il Beltrade a Milano, il Detour a Roma …) e in una manciata di città (Foggia, Matera, Trieste, Brindisi …) è un vero evento. Perché a parte i circuiti festivalieri – in Italia il film è passato al Torino film festival e a Filmmaker – o le «occasioni» speciali come nei giorni scorsi il bel laboratorio insieme al regista organizzato a Bologna da Nomadica, o ancora l’altrove televisivo di Fuori orario, un film di Pedro Costa non è mai stato distribuito. Eppure quello del regista portoghese è ormai un nome di riferimento negli immaginari contemporanei, quasi leggendario per i cineasti più giovani che scelgono la via tortuosa del «cinema d’autore», presente nei cartelloni dei festival più prestigiosi (questo era in concorso a Locarno nel 2014) del mondo. A raccogliere la sfida è una piccola distribuzione indipendente Zomia, non nuova a queste belle imprese – ha appena distribuito il magnifico Educazione sentimentale di Julio Bressane – provando che solo così si possono costruire delle alternative al monopolio di un esercizio divenuto anche monopolio del gusto (altro esempio è la recente distribuzione delle Mille e una notte di Miguel Gomes col Milano Film Network).

Cavallo Denaro, dunque, in cui Costa ritorna su quella che è l’«ossessione» – magnifica non so, dolorosa e ostinata senz’altro – della propria poetica: il suo Paese, il Portogallo narrato a partire dalla Rivoluzione del Garofani che rovesciò il regime di Salazar, e che lui ripercorre dalla parte di coloro che ne sono stati il pretesto, ovvero gli africani delle colonie, senza mai diventarne realmente parte. È un riferimento che attraversa il suo cinema film dopo film che appaiono come un progressivo «avvicinamento a quel mondo, i capoverdiani divenuti alla fine dell’impero coloniale migranti, stipati a Fointainhas, nel suburbio povero di Lisbona.

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E al tempo stesso fonda la costruzione di una poetica che è dichiarazione estetica, etica, politica. Dal primo di quella che possiamo chiamare una trilogia (gli altri sono Juventude em Marcha e Cavalo Dinheiro – punteggiata da variazioni, cortometraggi, installazioni – No quarto da Vanda (2000), la pratica quotidiana del filmare si è intrecciata alla grana dell’immagine,alla solitudine, alla ricerca costante di una corrispondenza tra le immagini e ciò che mostrano. Filmare la miseria o la marginalità non significa riprodurla, compiacersi, accarezzare il sentimentalismo. Le rovine in cui si avventura Costa si trasformano in una relazione, esprimono un pensiero sul tempo e sulla durata nel cinema, sulla luce, sull’inquadratura, su una verità che trova la sua forza nel massimo dell’astrazione.

L’11 marzo del 1975, quasi un anno dopo la Rivoluzione dei Garofani, il Portogallo torna in piazza contro un possibile colpo di stato della destra. Tra la folla, a condividere l’entusiasmo per questa vittoria decisiva, c’è anche l’adolescente Pedro Costa che qualche decennio dopo scoprirà che anche Ventura era lì, in quel medesimo spazio ma nascosto col terrore di essere pestato dai soldati. È dunque a quel fuoricampo dell’uomo e degli altri come lui, al bordo tagliato della fotografia rivoluzionaria che i film di Perdo Costa restituiscono l’immagine, e il contrasto con la retorica trionfante della storiografia ufficiale proietta il passato sul presente.

Ritroviamo Ventura, protagonista del precedente Juventude em Marcha, ma se quel film aveva l’eco di una ballata rivoluzionaria, Cavallo Denaro è un film di fantasmi che ritornano nel quarantennale della Rivoluzione portoghese. Un film che vive nell’oscurità di una lunga notte, claustrofobico, pervaso dalla paura, da un tremito come quello che scuote le mani di Ventura, memoria fisica di sofferenze passate e di una vita che somiglia a quella di tanti altri nei cui destini dannati si intreccia la Storia del Portogallo.

Ma quale Storia però? La sua racconta chi ha perduto tutto, la storia di un migrante, la casa lasciata alle spalle è andata in rovina, l’asino è morto e il suo bel cavallo Denaro è stato fatto a pezzi. Le mani da muratore, di ragazzo giovane spezzato dalla rabbia della fatica, non sono riuscite a trattenere l’anello da sposa per la sua amata Zulmira, e la baracca nel ghetto di quella città nemica non ha mai avuto abbastanza mattoni per finirla.Ventura ha diciannove anni nel 1975, il militare gli dà la caccia eppure era in suo nome che stava facendo la Rivoluzione. Nell’ascensore dell’ospedale, manicomio o prigione chissà, il soldato appare come una statua col fucile in mano, ha una voce mostruosa ma le sue labbra rimangono ferme. Violenza, paura, il cuore che sbalza, una inutile corsa…

Nei lunghi corridoi deserti di quell’edificio misterioso, Ventura ritrova i suoi ricordi, e i suoi incubi, figura fuori dal tempo, senza età, testimone che incarna in sé la Storia e la memoria del cinema. Al capezzale appaiono vecchi amici, uno ferito per una caduta al cantiere, un altro arrestato e picchiato da avere bisogno di pasticche per dormire tutta la vita. Raccontano di violenze e di solitudini, negli scatti in bianco e nero che aprono il film, i neri appaiono raramente anche nei quartieri poveri, in questo film invece sono i «bianchi» a rimanere quasi fuori dal quadro. C’è una donna, Vitalina, viene per i funerali del marito, e per avere la sua pensione di vedova. Ma cosa la lega a Ventura? Un colpo di coltello in fronte, e una vita fottuta, la sua e quella dell’uomo. Risse, ancora paura, la polizia, i padroni che li sfruttano. Se si cambiano le parole di una canzone di lotta si cambia anche la

Storia? Tenerezza, sofferenza, amore.  Lo sguardo di Costa compone con lucidità i passaggi nel tempo del suo personaggio. Al centro c’è la Rivoluzione ma la sua immagine ci dice qualcos’altro: la rivoluzione non c’è, non c’è mai stata anche se è stata dichiarata ed è divenuta mitologia storica cancellando le contraddizioni per riscriverla su misura. Sui passi di Ventura, rimane quanto è stato escluso dall’immagine ufficiale e non è oggetto di celebrazione, forse nemmeno di Storia. Solo il sussurro di una vecchia canzone, di un sogno che fa paura appena pensare.