Dagli inizi di marzo a oggi il Covid-19 si è portato via jazzmen come Giuseppi Logan, Lee Konitz, Elis Marsalis, Bucky Pizzarelli, Manu Dibango, Wallace Roney, Hal Willner, Marcelo Peralta, Mike Longo, Eddy Davis, azzerando in poco tempo un’intera generazione di grandi solisti. È un evento negativamente straordinario nella storia dell’umanità, che influisce in ogni settore della vita civile, musica compresa. Del resto il jazz vive, purtroppo da sempre, un confronto spesso drammaticissimo con gli avvenimenti della Storia che modificano il corso già di per sé intricato dell’esistenza umana: e in tal senso, il jazz, con protagonisti, gruppi, movimenti in apparenza disinteressati ai fatti di cronaca o di politica, non è affatto immune dalle cosiddette svolte epocali, poiché è constatabile, dalle origini e a oggi, l’idea (e la prassi) del jazz come legata ai grandi cambiamenti e alle repentine virate del mondo, della società, degli uomini, delle leggi, in una parola della Storia con la S maiuscola, a partire dalla scoperta dell’America, inizio dell’Evo Moderno.
Senza la tratta degli schiavi africani da parte dei negrieri europei verso il Nuovo Mondo agli inizi del XVII secolo (1619, in Virginia), non esisterebbe, infatti, quel sincretismo culturale manifestatosi appieno nella creazione di un suono afroamericano originale. Un suono che non è ovunque uguale, ma assume qualità musicali precipue a seconda dell’indottrinamento religioso inflitto agli sfruttati dai loro padroni: nelle colonie spagnole e portoghesi, in Centro e Sud America, il cattolicesimo risulta tollerante nei confronti di alcune ritualità legate allo spirito e al trascendente: ne rimangono ancora oggi prove inconfutabili dalla santeria al voodoo, fino all’uso, in musica, di percussioni dalla netta mimesi africana, di cui invece non vi è traccia nella popolazione black delle colonie inglesi: il fatto è che il credo protestante vieta ogni strumento musicale, ragion per cui il white spiritual da cui deriva il negro spiritual (così come viene chiamato fino a mezzo secolo fa) adopera soltanto la voce per intonare gli inni al Signore, mentre la reminiscenza del ritmo ancestrale viene metaforizzata nell’accompagnamento cadenzato di mani e piedi, come pure nell’intonazione shout, gridata, del canto stesso.

SECESSIONE
Anche il primo vero apporto originale alla musica afroamericana, il blues, è figlio di un evento storico che divide gli States: la Guerra di Secessione tra il vincente Nord abolizionista e industrializzato e lo sconfitto Sud razzista e agricolo; dopo il 23 giugno 1865, la leggenda vuole che il blues fiorisca dagli schiavi rimasti senza lavoro, in cerca di un impiego al Nord, raggiunto a piedi o salendo al volo sui treni merci, dove, per far passare il tempo, si inventano brani per voce e armonica, quasi a creare un diario cantato del proprio malessere esistenziale: blues infatti significa, di volta in volta, tristezza, paturnia, incazzatura. Persino il diretto antecedente pianistico del jazz medesimo, il ragtime, vanta una popolarità cosmopolita solo nel momento in cui si svolge, dal primo aprile al 31 dicembre 1904, la Fiera Mondiale di St Louis, città dove lavora il geniale Scott Joplin.
E che dire delle origini del jazz limitate – salvo rarissime eccezioni, come Jelly Roll Morton con tournée in California – alla sola New Orleans, senza la prima guerra mondiale degli Stati Uniti (6 aprile 1917) contro Germania e Austria? Da un lato la scelta della città della Louisiana quale porto militare costringe il governo allo sgombero moralizzatore del French Quarter pullulante di prostitute, biscazzieri e musicisti, con un esodo biblico di quest’ultimi verso Chicago dove il lavoro del jazzman è così ben accolto da fargli compiere il salto di qualità, consentendo al genere hot di King Oliver e Louis Armstrong un exploit massivo e uno sviluppo artistico dalla portata storica epocale. Dall’altro lato, dal 28 giugno 1919 (Trattato di Versailles) arrivano sempre più numerose sul Vecchio Continente le prime jazz band americane, grazie alle quali un pubblico via via curioso, smaliziato, erudito fa diretta conoscenza di una musica fresca, giovane, nuova, che gode subito dell’esaltata ammirazione di artisti e intellettuali dei movimenti d’avanguardia, dal Dada al Surrealismo, dal Bauhaus a De Stijl.
Ma l’Europa in pochi anni blocca l’ascesa del jazz: le dittature di Mussolini, Hitler, Salazar, Franco, Mataxas, Quisling (e per molti versi di Stalin) lo considerano arte degenerata (o decadenza borghese del sistema capitalista), irridendolo con disprezzo come negroide, cacofonico, selvaggio, morboso, sessualmente nocivo per le giovani generazioni. Ecco perché, dagli anni Venti ai Quaranta, non esiste uno Django Reinhardt italiano, tedesco o russo, nel senso che la Francia resta, tra le due guerre mondiali, l’unica nazione a consentire e talvolta favorire la proliferazione sia del jazz in generale sia di un jazz autoctono nel dettaglio, di cui il chitarrista gitano assieme a Stéphane Grappelli (violino) con le Quintette du Hot Club de France è un autentico riferimento anche per chi vede nel ritmo sincopato, dal tocco manouche, uno «strumento» per combattere o farsi beffe dei regimi autoritari.
Intanto negli Stati Uniti, altri fatti epocali, costringono il jazz ad alti e bassi: il crack delle banche, il crollo di Wall Street, insomma la «grande crisi» e la conseguente Depressione che dal «giovedì nero» (24 ottobre 1929) si protrae per 6-7 anni, mette in ginocchio anche lo show business, di cui il jazz all’epoca risulta indiscusso primattore: per motivi razziali i primi a farne le spese sono i musicisti afroamericani, costretti talvolta ad abbandonare le scene o a cambiare mestiere: la cantante Bessie Smith ha di colpo gli ingaggi ridottissimi, il citato Morton molla tutto trovandosi di volta in volta a gestire locande e albergacci o a suonare in club di serie Z, finché in uno di quei ritrovi scalcinati, a Washington, viene riscoperto dal giovane musicologo Alan Lomax.

PROIBIZIONISMO
Ma se il jazz nero, durante la crisi e il proibizionismo (Volstead Act, 1920-1933) riesce in parte a sopravvivere ed emanciparsi, è «merito» della politica corrotta: nei primi anni Trenta a Kansas City il sindaco Thomas Pensergast chiude un occhio (o entrambi!) su aperture di bische e mescite di alcolici, facendo della città un vivace porto franco dove arrivano le migliori orchestrine da tutto il paese, essendo il jazz, fino ad allora, legato inestricabilmente, alla vita notturna (e talvolta clandestina): è la fortuna per Bennie Moten che lascerà la formazione nelle mani di Count Basie, a sua volta protagonista dello swing durante l’intero decennio e per quelli a venire.
Del resto proprio lo swing viene ritenuto da storici e sociologi, per la freschezza di una musica giovane, ballabile, spensierata, la colonna sonora del secondo new deal, il risoluto piano riformistico di Franklin Delano Roosevelt che, soprattutto con il Social Security Act (14 agosto 1935), grazie agli investimenti in gigantesche opere pubbliche, dà fiato all’economia e fiducia alla classe operaia. Il presidente promuove altresì una decisiva azione culturale, mobilitando pittori, fotografi, letterati, registi e musicologi per una sorta di censimento artistico, in cui viene coinvolto il citato Lomax, assieme al padre John, affermato studioso marxista, dando vita alle prime registrazioni sul campo alla ricerca delle origini del folklore a stelle-e-strisce, scoprendo l’esistenza di blues, spiritual, jazz arcaici, perfettamente «conservati» in aree dimenticate o escluse da progresso e modernità.
Come i film di Frank Capra, così lo swing delle big band sia bianche sia nere simboleggia il rinato ottimismo americano, che resta vivo durante la seconda guerra mondiale nell’idea di vincere contro il giogo nazifascista: ne sono supporti propagandisti i V-disc (dischi appunto della Vittoria) e ancora una volta le orchestrone al seguito degli eserciti. Dall’8 dicembre 1941 sono inoltre molti i jazzisti ad arruolarsi, il più celebre dei quali resta Glenn Miller con il grado di capitano (e poi di maggiore) d’aviazione (US Army Air Corps), a capo della Army Air Force Band (quindi Airmen of Notes), per intrattenere le truppe in Inghilterra dal 9 luglio 1944: dato come disperso in guerra, il 15 dicembre, il trombonista, compositore e leader precipita nella Manica (forse colpito per sbaglio da fuoco amico) mentre il resto della band, assieme a Django e Quintette, lo attende per festeggiare in una Parigi da poco liberata.

NEI LAGER
La seconda guerra mondiale miete vittime innocenti anche fra i 6 milioni di ebrei nei lager, dove jazzmen europei, professionisti e dilettanti, sono a decine: sfugge miracolosamente all’arresto della Gestapo, l’appena citato Reinhardt, non perché sinti apolide, ma per il no al Kommandantur di suonare in Germania: da Parigi ripara a Thonon-les-Bains, in Alta Savoia, dove suona per mesi in incognito. Scappa, altrettanto fortunosamente, durante il trasferimento verso Dachau, dopo la prigionia a Therezin e Auschwitz (indenne alla visita medica del famigerato Joseph Mengele) il chitarrista ebreo berlinese Coco Schumann, il quale racconterà la propria straziante vicenda solo nel 1997, a 73 anni, con l’autobiografia The Ghetto Swinger: A Berlin Jazz-Legend Remembers (vergognosamente mai tradotta in italiano). Vicenda analoga per il torinese Carlo Prato, pianista e autore per lo swinger Alberto Rabagliati, che dopo l’8 settembre, richiamato alle armi, rifiuta di aderire alla RSI (la Repubblica Sociale Italiana), ma è deportato nel lager Stalag XII-A di Limburg, dove si ammala per morire a soli 40 anni nel 1949, senza assistere al proprio maggior successo Ciau Turin, ballata sugli emigranti piemontesi.
Una storia a lieto fine è quella dell’ottetto swing The Happy Boys, proveniente dal ghetto di Lodz (Polonia) e chiamato dalla fine della guerra sino al 1949 ad allietare pomeriggi e serate nei cosiddetti DP Camps d’Europa, allestiti dalle forze alleate allo scopo di nutrire e curare i sopravvissuti per il successivo ritorno nelle patrie di origine o in altre nazioni richieste: purtroppo dei «ragazzi felici» non restano che i loro nomi – Sam Spaismacher, Henry Eisenman, Abraham Mutzman, Chaim (Henry) Baigelman, Elek Silberstein, Itchak Lewin, Abraham Lewin, Josel Lewin – oltre una bella fotografia e un ricordo nello United States Holocaust Memorial Museum a Washington.

SINISTRA E DESTRA
La storia del jazz in Europa vive una seconda giovinezza grazie alla Liberazione e ai soldati della Quinta Armata che insegnano a ballare il boogie o che regalano i menzionati V-disc, tra l’altro incisi da tutti i «grandi» senza fini di lucro, unici testimoni fonografici, nell’unico periodo di lungo sciopero per le case discografiche americane (di cui si è scritto su queste pagine qualche settimana fa, Alias del 4 aprile 2020). Da allora il sound di Louis Armstrong e Duke Ellington, Woody Herman ed Ella Fitzgerald, degli astri nascenti Charlie Parker e Dizzy Gillespie – oltre la Francia dove a osannarlo continuano intellettuali del valore di Jean-Paul Sartre, Boris Vian, Michel Leiris – viene positivamente accolto, persino a livello ideologico, dalla cultura italiana marxista più aperta (Cesare Pavese e Massimo Mila, ad esempio) e meno servita ai dogmi di un Pci ancora ufficialmente legato al realismo socialista staliniano.
Al contempo la chiesa cattolica guarda con diffidenza alle nuove sonorità e il mensile Musica Jazz finisce addirittura all’indice dei testi proibiti per il solo errore di presentare qualche donnina in costume da bagno sulla copertina; si dovrà attendere il Concilio vaticano II per sentire i gospel o addirittura le messe beat in parrocchia. In realtà lo scontro politico sul jazz avviene in Italia, Europa e Stati Uniti, tra i modernisti (bebop, cool) di sinistra e i tradizionalisti (dixieland revival) al centro, mentre per la destra tricolore, decisamente neofascista, il jazz è fumo negli occhi, nonostante la carriera brillante del figlio del duce, Romano Mussolini (in quegli anni però vicino al Psi) come pianista mainstream (autore di qualche buon disco, prima di naufragare nella pacchianeria).
Tornando agli Stati Uniti, destra invece significa maccartismo, che perseguita i jazzisti non tanto per le idee politiche (sottaciute o inespresse a differenza di attori e registi) quanto per la loro «fama» di drogati: prima vittima illustre Billie Holiday, spiata dal Federal Bureau of Narcotics, finita in galera e privata a lungo della «cabaret card» per esibirsi nella sua New York.
Il jazz intanto diventa, nell’opinione pubblica, una forma d’arte diffusa ovunque, di cui però gli americani mantengono il primato dell’originalità: e, dopo il 14 febbraio 1956, quando al XX Congresso del Pcus, Nikita Kruscev denuncia i crimini di Stalin e insiste sulla coesistenza pacifica con il blocco occidentale, in risposta, nel giro di pochi mesi, il Dipartimento di Stato organizza una tournée di Louis Armstrong (allora una star persino Oltrecortina) a Mosca e Leningrado. I politici pensano al cantante/trombettista/entertainer perché nel maggio 1956 viene accolto trionfalmente in Ghana, esibendosi davanti a centomila persone (record imbattuto per un singolo jazzista) nel vecchio campo di polo, dove il 6 marzo 1957 il futuro presidente Kwame Nkrumah proclamerà l’indipendenza del Paese.
Per l’Urss sembra tutto pronto, quando il governatore dell’Arkansas Orvil Faubus, contravvenendo alle leggi federali anti-apartheid, il 4 settembre 1957 impedisce di persona a una bambina nera di entrare nella scuola pubblica, mettendosi tra lei e l’uscio d’ingresso. La notizia fa il giro del mondo, l’esercito interviene a garantire l’accesso agli studenti di colore, ma Satchmo, infuriato come non mai, rilascia interviste di fuoco: «Il presidente Eisenhower è un ipocrita e un vigliacco. Se questo è il modo in cui trattano la mia gente giù al Sud, allora il governo americano se ne può anche andare all’inferno», riferendosi al viaggio in Russia. Passerà un lustro (dicembre 1962) prima che un jazzista, Benny Goodman, si esibisca in Urss.

IN AFRICA
Resta comunque Louis l’unico vero Jazz Ambassador, anche perché i ministri di Congo, Ghana, Nigeria, Kenya, Uganda, Guinea, tra il 1960 e il 1961, fanno a gara nell’invitarlo per festeggiare l’ormai sopraggiunta decolonizzazione dell’intero Continente; le stime parlano di mezzo milione di partecipanti in totale, ma un grave lutto – la vocalist quarantaquattrenne Welma Middleton per un attacco cardiaco gli muore fra le braccia mentre cantano in duo a Freetown (Sierra Leone) – porrà un lungo stop a queste iniziative, riprese in pompa magna solo dal 22 al 24 settembre 1974, quando il pugile Mohammed Alì per la finale dei pesi massimi sceglie Kinshasa (Zaire), promuovendo un megaraduno di sola black music (James Brown, B.B. King, Hugh Masekela, Miriam Makeba, TPOK Jazz, Bill Withers eccetera) onde sottolineare la politicità del duplice evento (sportiva e culturale).
Del resto tra il 1961 e il 1974 l’orgoglio africano è fatto proprio dal jazz nero statunitense attraverso nuovi stili – hard bop, soul, free jazz, persino il funk e il jazz rock – vestendo in scena o in privato dashiki e keftan oppure prendendo un nome musulmano e ancora appoggiando più o meno direttamente movimenti politici rivoluzionari. Ma è anzitutto l’estetica a muoversi: il 3 ottobre 1964 al Cellar Café di New York il trombettista free Bill Dixon organizza la October Revolution in Jazz, ispirandosi, nel nome, al 1917 leninista per lanciare il nuovo sound di Cecil Taylor, Sun Ra, Paul Bley. Otto anni dopo tre improvvisatori britannici, Paul Rutherford, Derek Bailey, Buddy Guy omaggeranno ancora il pensiero di Lenin con l’album Iskra 1903, titolo corrispondente al mensile russo socialista (1900-1905) e poi scelto per rappresentare il gruppo attivo fino al 2013 a fasi alterne.
Nel jazz dunque i cosiddetti favolosi Sixties si legano all’impegno politico, benché, più delle molte tragedie americane, dalla guerra in Vietnam agli assassini dei due Kennedy, a ispirare i musicisti risultano due leader religiosi, Malcolm X e Martin Luther King, che, appena prima del movimento Black Panthers (vicino in parte alla filosofia marxista), simboleggiano invece, con il primo, un atteggiamento aggressivo e con il secondo una posizione conciliante: un numero esorbitante di brani e dischi sui due «testimonial», uccisi brutalmente da fanatici, rispettivamente al broadwaiano Audubon Ballroom il 21 febbraio 1965 e in un motel a Memphis il 4 aprile ’68, dimostra la presa di coscienza, ormai pluridecennale, dei musicisti afroamericani sulle questioni razziali.

IN ITALIA
Altri eventi, come l’esecuzione di Ernesto Che Guevara a La Higuera (Bolivia, 7 ottobre 1967), rendono ancor più ideologizzata la lotta dei jazzmen europei (da sempre vicini ai neri, molto più dei colleghi bianchi americani) sul finire dei Sessanta, alleandosi alle rivendicazioni studentesche. Dopo la Francia, dove il Maggio è scandito sia dal folk-jazz di Colette Magny sia dalla new thing (Art Ensemble of Chicago in primis) nel volontario esilio parigino, il connubio fra nuovo jazz e sinistra extraparlamentare si trasferisce in Italia per un lungo tormentato, ma pure appassionante decennio, fra centinaia di performance in fabbriche occupate, assemblee universitarie, feste proletarie, vie e piazze invase da giovani festanti: le iniziative al proposito forse più eloquenti sono le Nuove tendenze del jazz italiano, 28, 29, 30 novembre 1976 alla Statale di Milano, primo esempio di solidarietà e fratellanza, tra i vari Giorgio Gaslini, Guido Mazzon, Gaetano Liguori, Piero Bassini, Andrea Centazzo, Pino Di Staso, Claudio Lo Cascio, Cadmo e OMCI.
Chissà se domani la pandemia «globalizzata» riuscirà a cambiare il corso della storia del jazz come fanno via via, la tratta degli schiavi, la diaspora, l’abolizionismo, un’Expo, due conflitti mondiali, un crollo di borsa, le tante dittature europee, l’olocausto, una guerra fredda, la decolonizzazione, il ribellismo giovanile senza precedenti? Presto per dirlo, perché la Storia non si ripete mai uguale a sé stessa, benché per concludere con il grande scrittore e utopista britannico Aldous Huxley: «Il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia ci insegna».