Hiroshi Sugimoto fotografo e artista, collezionista d’arte antica, regista di teatro bunraku e voce narrante di film muti, ma anche chajin, ovvero «persona dedita al tè», passione che l’ha rapito per caso ai tempi dell’università e a cui oggi si sta dedicando sempre più attivamente e consapevolmente, come dice lui stesso. È un Sugimoto artista e performer che continua a rinnovarsi e ad affascinare quello che si presenta a Venezia in occasione della XIV Biennale d’Architettura, dopo il successo dello spettacolo di burattini Sugimoto Bunraku andato in scena sotto la sua regia a Roma nell’autunno scorso. Tiene fede alle sue parole secondo cui non esistono barriere nel mondo dell’arte, né prezzo aggiunge, se di vera arte si tratta, ed espone al Palazzetto Tito della Fondazione Bevilacqua alcuni nuovi lavori fotografici che continuano la sua ricerca sulla luce e sul tempo (Modern Times, fino al 12 ottobre) attraverso l’architettura, mentre alla Fondazione Cini l’ultima sua creazione spaziale per la cerimonia del tè. Si chiama Mondrian, la cui pronuncia tradotta in caratteri cinesi può significare «una casa modesta dove si possono sentire gli uccelli cantare» ed è una capanna del tè in vetro. Un cubo trasparente di 2,5 x 2,5 metri (con un pavimento di due tatami come la più piccola stanza del tè), sollevato su una lunga vasca d’acqua ricoperta di mosaico di vetro blu (realizzata in collaborazione con la Fondazione Bisazza), a cui si accede tramite un camminamento irregolare di pietre tipico dei giardini zen, così come la recinzione che racchiude questa sorta di spazio spirituale, realizzata in legno di cedro, come si usava per le antiche sculture buddhiste, in questo caso proveniente dalle regioni del Tohoku colpite dal Grande terremoto del 2011. Togliendo tutti i requisiti della classica capanna del tè immersa nella penombra, seminascosta e intima, Sugimoto la fa esplodere, la rovescia mostrandone l’anima, come una tela contemporanea che esce dalla classica cornice. Rimane il fatto che solo il maestro Sen – quindicesima generazione della scuola del grande Sen no Rikyu che la cerimonia la codificò – e un ospite possono accedere fisicamente a quello spazio che, seppur trasparente è delimitato da due porticine in legno, mentre tutti possono partecipare alla cerimonia come osservatori di uno spettacolo teatrale dalla piccola tettoia di sosta esterna. Viene da dire provocatoriamente che forse anche il bollitore, la tazza, il mestolino e ogni altro utensile utilizzato dal maestro, e qui disegnati appositamente da Sugimoto, sarebbero dovuti essere in vetro, per compiere la trasparenza e la nudità assoluta del rito.
«Luce e l’ombra» sono elementi fondamentali nella cultura giapponese se pensiamo a Tanizaki Junichiro e al suo «Libro d’ombra». Anche nel suo lavoro sono importanti, dalla fotografia, al teatro agli spazi dedicati alla cerimonia del tè…
Questo deve scoprirlo lei. Io posso solo dire sì o no! La luce naturale è meglio. Odio quella artificiale. L’ho usata solo per i lavori notturni, ma è meglio non utilizzarla del tutto. Detesto i tempi moderni. Tutto è stato distrutto dalla luce artificiale. Anche il cinema.
Chi è il regista o il film che preferisce in questo senso?
Il primo cinema, quello francese.
E tra i giapponesi?
Kurosawa naturalmente è un grande maestro. Ma io preferisco i film muti. Ozu non ne ha fatti tanti. The Water Magician (Il filo bianco della cascata / Taki no shiraito) di Mizoguchi; e poi Kinugasa Teinosuke. Ho anche fatto il benshi, la voce narrante per i film muti. L’ho fatto per The Water Magician di Mizokuchi, l’ultimo suo film muto (1933), bellissimo! (e improvvisa una piccola performance vocale di Sugimoto benshi, ndr…)
Oltre a Sugimoto regista abbiamo sentito anche Sugimoto attore. Lei ha interessi e un campo d’azione molto vasti: esiste un legame tra fotografia, arte antica e teatro bunraku?
Non c’è separazione tra le arti, sono tutte unite. Si parla di senso dello spazio, del teatro, della musica, della luce. È cultura. E io vivo nella cultura giapponese.
Quale ritiene sia l’aspetto più interessante dell’arte giapponese?
È molto diversa da quella occidentale. È un prolungamento della cultura dell’età della pietra. È l’antica cultura Jomon che rimane viva ancora oggi in Giappone, mentre nella cultura occidentale, specialmente con l’affermarsi del cristianesimo in epoca romana, quella autoctona locale è stata spazzata via per uniformarla sotto le regole della Chiesa. Mi piace la cultura celtica irlandese ad esempio, ma anche questa è stata messa da parte con il cristianesimo.
Una collega archeologa ha detto una cosa interessantissima: ha scoperto in Giappone la forte rispondenza tra gli oggetti presenti nei piccoli santuari shintoisti dislocati nelle campagne e i ritrovamenti nelle tombe etrusche italiane.
Certo, è un pensiero neolitico, antico quello che si trova. Il Giappone ha una natura bellissima, i giapponesi non dovettero coltivare. Agricoltura significa che tu tagli un albero per appiattire il terreno e inserire la pianta che più ti piace, poi la addomestichi e nel tempo la abitui perché risponda ai tuoi bisogni. In Giappone prima di uccidere un animale o di tagliare un albero si pregano gli dei affinché diano la possibilità di farlo. Se distruggi la natura, perdi ciò che ti è stato dato.
Cosa ne pensa delle tante pareti di cemento che coprono i fianchi delle montagne in Giappone? Sembrano mostrare un paese che dimentica la natura…
Sì, ma è anche vero che il 70% del territorio giapponese è ancora intoccato e così selvaggio che non vi si può entrare. Al contrario, tutte le aree di pianura sono pienamente sviluppate e occupate, non c’è più posto per allargarsi. Per questo i giapponesi sono andati in Manciuria! (ride, ndr)
È interessante il suo rapporto con il mondo del design: lei lavora con Issey Miyake e lo spazio espositivo 21_21 Design Sight che è un posto di avanguardia dove arte e tecnologia si muovono insieme grazie alla collaborazione di ingegneri, stilisti, agricoltori, artisti, designer; inoltre collabora con Kenya Hara. Pensa che sia questo un nuovo modo di fare arte?
Non c’è alcun limite. Ho ideato dei foulard per Hermes. E ritengo siano arte, perché richiedono un forte investimento economico!
Può spiegare meglio cosa intende?
Hermes non li distribuisce nei negozi, li ha prodotti per esporli in mostra, in edizione limitata di 20 esemplari ognuno in 7 edizioni e vendendoli poi a 7000 euro l’uno. Quasi tutti venduti credo. Non c’è limite tra arte e design.
Dell’evento «House Vision» colpiva la collaborazione tra i più grandi marchi del mondo dei motori, dell’edilizia, dell’arredo e artisti, designer, architetti, fotografi. Una visione lungimirante. Poi penso a quando si propone un libro a un editore e ti viene chiesto se si tratta di un volume di design o d’arte e a quel punto si deve decidere di che mondo si fa parte e cosa metterci dentro…
Arte e scienza è per me un tema molto interessante. Ed è anche un marchio: il mio marchio che si chiama «Art & Science»!
La radice è comune. La separazione tra le due discipline forse è nata nel Rinascimento. Quella tra arte e design probabilmente in tempi moderni, non so, dal movimento «art and craft». Dipende da come uno definisce l’arte.
Nel Giappone antico arte e artigianato erano la stessa cosa. Prendiamo un paravento…
Sì, in epoca Edo non esisteva un concetto che definisse l’arte. E nemmeno quello di love, di amore. La società di Sonezaki (tema anche del dramma Bunraku da lui diretto che parla del rituale doppio suicidio d’amore) non aveva il concetto di love. C’erano i termini nasake o jo che indicano in qualche modo lo spirito, la compassione. Love viene tradotto come ai in giapponese. Ma è una scelta che viene proposta in epoca Meiji e credo sia una traduzione sbagliata.
In che senso?
Ci sono tante possibilità di traduzione del termine love. Nel contesto cristiano si tratta di un tema forte: «Dio ti ama» indica un amore non come sentimento tra uomo e donna ma un amore più generale, dio che ama le persone. La motivazione è il peccato. Ma anche questo è un concetto molto difficile da tradurre in giapponese. Cos’è il peccato? Cosa c’è di sbagliato all’inizio? Nel nostro paese non c’è nulla di errato in origine, mentre nel pensiero cristiano si nasce peccatori, per questo si perde il paradiso e questo in cui viviamo… è il paradiso perduto!
Qual era il termine usato per «love» prima di tradurlo in «ai»?
Non c’era una parola precisa. Ma se fossi io a dover tradurre love in giapponese non sceglierei ai, ma piuttosto la parola jo, che indica joshi, ossia un sentimento di fiducia e lealtà verso il partner. Questo è amore per i giapponesi. Ma love ha tanti significati…Quando ero giovane e una ragazza mi diceva: «Ehi, vuoi fare l’amore con me stasera?», io rispondevo «Sì, certo!» . Questa è una forma d’amore!…Una notte: è il massimo tempo di cui possiamo essere sicuri. Tutto è instabile… è un modo fluttuante.
Il mondo fluttuante di epoca Edo? L’ukiyo?
Certo, quel mondo fluttuante. Ho fluttuato per tanto tempo. E ora ancora non so dove sto andando… sto ancora fluttuando.
Cosa immagina per il futuro del mondo dell’arte in Giappone?
È proprio questo che sto presentando al Palais de Tokyo a Parigi con «Aujourd’hui, le monde est mort». Il futuro dell’umanità, dove va, come finisce…
Cosa ne pensa della politica del «Cool Japan» così attivamente promossa dal governo giapponese verso l’Occidente? Percepisce questo movimento della cultura giapponese verso l’esterno?
Cool Japan è orrendo, terribile! È una promozione fatta dai burocrati che non hanno alcuna cultura. È una perdita di tempo, come buttare acqua nella sabbia! Se guardo alla Francia, sta promuovendo la propria cultura con orgoglio e molto bene. Lo dico sempre ai burocrati e ai politici giapponesi: «Spendete milioni di yen dandoli alle grandi agenzie pubblicitarie come Hakuhodo e Dentsu il cui lavoro è solo pensare a come spenderli non a come usarli al meglio!». Penso che non si dovrebbero usare i giapponesi, bensì le persone del paese dove si vuole promuovere la cultura giapponese. Se è in Italia ci si riferisca ai locali e si sfruttino meglio le risorse per promuovere la cultura giapponese.
Cosa ne pensa di questa tendenza verso un’arte collettiva? Anche le ultime Biennali hanno presentato progetti collettivi di arte e architettura sviluppatisi dopo il Grande Terremoto del 11.3.2011…
Per me quella è arte di secondo livello. L’arte deve essere arte di per sé. È già forte abbastanza da sola. Mentre l’arte debole dipende da fattori esterni. L’arte è individuale.
Da quanti anni pratica la cerimonia del tè?
Quando ero studente all’università un amico mi insegnò le basi. Ma oggi la faccio seriamente.
Quando ha cominciato invece a creare spazi per la cerimonia del tè?
Nel 2005 al Mori Museum of Art di Tokyo. Lì feci la prima cerimonia del tè seriamente, usando la capanna del tè del Nezu Museum of Art.
Quale fu l’occasione da cui iniziò?
Io colleziono arte antica, dipinti buddhisti, calligrafie e la maggior parte di queste opere sono state realizzate per essere usate durante la cerimonia del tè. Quindi, per usare la mia collezione avevo bisogno di una stanza per il tè. Per presentare l’arte. Questo è il modo di presentare l’arte in Giappone. Come un salotto. Si invitavano 2-3 ospiti e in occasioni speciali si mostravano gli oggetti d’arte più belli nel tokonoma. Lo si faceva solo per quegli ospiti selezionati. E la volta successiva non li avresti più mostrati quando loro venivano.
Si servivano poi diverse pietanze. Questa è la forma che il Giappone ha sviluppato per godere l’arte in antichità. Oggi a New York ogni tanto vengo invitato in alcune abitazioni immense di collezionisti dove tutto è esposto. Quello è davvero il gusto più atroce per un giapponese… È come esporre della mercanzia! Cattivo gusto.
Ritiene che gli occidentali possano comprendere il senso della cerimonia del tè?
o ho una piccola stanza da tè nel mio studio a New York e occasionalmente tengo dei ricevimenti per insegnare l’estetica giapponese… ai ricchi.
Cosa crede che la cerimonia del tè possa trasmettere ancora oggi?
È minimale. Si tratta solo di fare e bere del tè insieme. Ma in verità comprende tutte le arti perfomative, insegna come guardare l’arte, la scultura nelle tazze, l’arrangiamento dei fiori. Sono tantissimi fattori insieme. Tutte le arti insieme senza separazione.
Ci sono delle differenze tra il modo di adempiere alla cerimonia del tè in passato e oggi?
Ogni epoca storica ha avuto maestri del tè e persone che si sono dedicate alla cerimonia tè godendone però in modo diverso secondo il proprio stile. Nel XVI secolo era diverso dal XVII e dal XVIII, erano movimenti diversi. Io vorrei portare avanti una cerimonia in stile XXI secolo. Ma lo spirito di base è lo stesso.
Qual è lo stile del XXI secolo?
La Glass Tea House!
Ha saputo che mentre lei faceva la cerimonia del tè il sindaco di Venezia è stato arrestato?
Davvero?
Forse la notizia nella stanza del tè non è arrivata. Dopo tutto quello è un altro mondo…
Sarà un ricordo speciale, un giorno memorabile. Il titolo dell’articolo potrebbe essere allora: «Mayor arrested tea ceremony», o meglio «Tea ceremony. Night of arrest!». (ride divertito offrendo titoli sempre più ironici e zen, ndr). «Arrest your spirit in the tea ceremony!».