Una mattina di agosto di qualche anno fa, un immobiliarista fermano chiama al telefono Daniele Cudini, artista pop molto amato da Eco e Lucio Dalla e molto apprezzato in Germania, lo avverte che in una casa del centro storico di Fermo stanno facendo un trasloco, deve essere liberata in fretta, ci sono dei mobili ma anche dei quadri.

Lo stabile si trova proprio nel borgo storico più segreto, nel dedalo di vicoli che serpeggiano nel ventre della città vecchia, a due passi da Piazza del Popolo. Abitazioni un po’ esoteriche, umide e segretissime, pochissimo luminose, in genere abitate da persone anziane, spettrali con quel qualcosa di antico che le rende misteriose e anche un po’ magiche. Quando l’artista che si ispira alla musica (suoi alcuni stupefacenti painting dei Marlene Kuntz) giunge sulla soglia dell’appartamento, curioso come pochi, fa conoscenza con una ragazza di Roma malinconica e disorientata, arrivata da poche ore dalla capitale.

Una presenza «eccentrica»

Nella casa, buia e angusta, molto triste, gli racconta sottovoce che dopo la morte di questa sua zia che non ha mai neanche conosciuto, avvenuta due mesi prima, è stata rintracciata dal notaio per l’eredità, così è salita su una corriera e arrivata da pochissimo nelle Marche. La parente in questione, non sposata e religiosissima, pare vivesse da anni tappata in casa facendo quasi vita monastica, confortata dai rosari e dai libri sacri. Cudini visita l’abitazione, entra ed esce dalle sue stanze, desideroso di scovare qualche mobile antico, un vecchio specchio liberty, una statua in bronzo, un orologio, ma sembra non trovare niente di particolarmente interessante.

In quel periodo era a caccia mobili per arredare la casa, ma stava fotografando anche luoghi che erano stati abitati e poi abbandonati, documenti della vita vera che gli servivano per i quadri, dei teatrini ironici abitati dai suoi personaggi, figure della contemporaneità più profonda e molto spesso spettacolarizzati nei modi di apparire e nei colori sempre a tinte forti. Alla fine decide di prendere solo una vecchia radio di bachelite impolverata, nient’altro. Sta per andarsene, salutare la ragazza, quando vede un quadro appeso a una parete del corridoio stretto e buio.

È una madonna dallo stile apparentemente molto classico. «Sono rimasto colpito dalla pittura un po’ sporca, dalla pennellata per niente compiaciuta», mi racconta mentre visito il suo studio in un palazzo dietro lo stadio di Fermo. «Ho pensato: questo è il quadro di un vero artista», continua a spiegarmi mentre siamo davanti a una tela enorme che sta lavorando con le decalcomanie di alcuni personaggi della società del reality, dove giganteggia un Berlusconi baconiano, dal volto sformato e mostruoso, assolutamente padrone dello spazio. «Alla fine ho deciso di acquistarlo, insieme a un altro quadro e alla radio, e per molto tempo è stato in casa mia, poi anche qui nello studio».

Il suo destino, la sua storia sembra quella di molte opere d’arte create da sconosciuti, che vivono la loro vita un po’ anonima, senza particolari clamori, nei tinelli o negli studioli di case arredate, confusi con stampe, e avvicinati ai finti Van Gogh, alle riproduzioni dei Picasso, alle orrende croste acquistate ai mercatini, coi paesaggi marini e le barche. Invece un giorno di qualche anno dopo arriva nello studio dove siamo un suo amico pittore ma anche esperto di attribuzioni, Piero Mezzabotta, un giovane curiosissimo di arte e ossessionato dalle forme, che quando si trova di fronte al lavoro di un maestro ne è posseduto, e ha in genere anche dei malesseri fisici, spia di una vera e propria visione.

«Lui è uno che ha un grande occhio», dice Daniele Cudini ammirato, «riesce a ricostruire quasi la calligrafia pittorica degli artisti. Sostiene che come la scrittura rivela il carattere delle persone, anche nella pittura uno può ravvisare nei vizi della pennellata certe caratteristiche peculiari». Quando arriva nella stanza dove siamo per mostrare il quadro all’amico, un garage adibito a studio, ma anche una specie di galleria permanente dove cambia continuamente i quadri appesi alle pareti, appena l’altro lo vede muta espressione: «si sbianca in viso, poi mi dice: guarda che questo è un Licini!».

In effetti, ci sono aspetti del quadro inconfondibilmente ascrivibili al segno del grande artista marchigiano, il nostro Klee, come l’ovale del periodo dei ritratti: «la posizione di quella mano che si vede appena, per esempio» mi fa mentre indica il quadro, «ce ne è uno che fece a un suo amico, il quale tiene il giornale nella stessa posizione della mano. E poi la forma della bocca di questa madonna, che lui poi ripete successivamente nelle Amalasunte, negli Angeli Ribelli».

Al centro di quel quadro, nel disegno delle labbra rosso fuoco, con sotto una piccola sfumatura di azzurro, c’è il segno liciniano dei paesaggi, anche la corona di questa madonna è la stessa dei suoi meravigliosi angeli erranti nei cieli. «Forse questo quadro dimostra che l’idea delle Amalasunte parte proprio dall’immagine della madonna, di questa madonna», conclude Cudini mentre ripone il quadro. «Ricordo che Mezzabotta quel giorno prese in mano questo lenzuolo, perché l’opera è dipinta sul lenzuolo, e ha cominciato a mimare Licini, il suo modo di zoppicare da reduce ferito in guerra, nel modo in cui aveva potuto piegarlo» fa divertito parlando del suo amico.

All’astrattismo il pittore ci era arrivato dopo una incubazione post-impressionista, databile proprio anni ’20, ma lo fu in modo originalissimo e assolutamente lirico. Mentre era stato sempre comunista, per anni sindaco del suo paese natale, Monte Vidon Corrado. Ma com’era finito quel quadro nella casa della vecchia donna, dove poi era stato per oltre mezzo secolo? Anche questa è un’altra storia che vale la pena di raccontare.

Cudini s’informa presso il traslocatore, poi va da un grande studioso dell’opera liciniana, Domenico Pupilli, che pur riconoscendo il quadro lo considera di secondo livello, ma gli consiglia di fare una ricerca della famiglia per capire la provenienza del dipinto. Quando in un secondo tempo Cudini gli fa sapere che il cognome della vecchia è Maranesi, il professore lo avverte che esiste una pubblicazione di un prelato, Don Francesco, lo zio della donna, storico dell’arte al quale si deve anche l’attribuzione della Natività del Rubens, tuttora conservata nella locale Pinacoteca.

La matrioska infinita

Nel libro Guida storica e artistica della città di Fermo, edito nel 1944, il religioso, che operava presso il Convento e la Chiesa di Sant’Agostino, parla di questa madonna e ne riporta l’effigie in bianco e nero dell’originale. Cudini non si dà per vinto, va nella chiesa, e un pomeriggio trova quello che resta dell’originale, la Madonna della Pace del 1200, perché anche il quadro, in questa storia che sembra una infinita matrioska, è una storia nella storia. Attraverso i vari restauri e ristrutturazioni in ogni secolo cambia pelle e viene ridipinto molte volte.

«C’è anche la leggenda di un muratore che quando è costretto a coprire l’affresco comincia a tremare e non riesce più ad andare avanti, e lì inizia il mito di questa madonna come immagine sacra da venerare e la chiesa riacquista importanza, tornano a farle visita i fedeli da tutte le parti», dice ancora l’artista, che intanto ha spiegato una grande tela che vuole farmi vedere.

Il vecchio simbolo del Pci con la falce e martello è deturpato da un Berlusconi in camicia che sembra cancellarlo con un potente getto di vernici e scoli alla Pollock. Ride mentre me lo mostra. La matrioska però nasconde ancora un altro frammento di storia, anche se non è ancora l’ultimo.

Licini, negli anni ’20, sicuramente vede una versione di quella madonna che ora non c’è più. Insegnante presso l’Istituto Industriale «Montani», comunicante con la chiesa di Sant’Agostino, amico di Don Francesco Maranesi, potrebbe darsi che gli abbia dato in regalo il quadro, ispirato dall’antico affresco, e che dopo la sua morte fosse successivamente finito nella casa della nipote, e lì rimasto fino al giorno in cui Daniele Cudini, chiamato dall’immobiliarista, ma anche un po’ dal destino, non si è recato in quella casa. A chiudere il cerchio, e qui la matrioska è finita davvero, il cosiddetto «seme», l’ultimo dei suoi pezzi di legno.
In un articolo di un altro storico dell’arte, Luigi Dania, Ricordo di Osvaldo Licini nel centenario della nascita, la traccia della sua presenza a Fermo. «Tornato in Italia, nel 1922 – scrive lo studioso,- insegna alla Scuola Tecnica di Fermo. Una testimonianza sulla sua permanenza nella città si deve al pittore Ludovico Catini: ’Era alloggiato presso i frati, e credo che vi consumasse anche i pasti. (…) I dipinti che mi faceva vedere risentivano molto di Modigliani. (…) Ammirava moltissimo la testa di una santa affrescata nella chiesa di Sant’Agostino, situata presso l’altare, quello di sinistra, entrando. La trovava deliziosa per il suo candore e primitivismo espressivo. Credo che ne facesse una copia’».