Dalla collezione di Fabio Binelli, Mantova: Argentiere romano, Reliquiario, fine XVII secolo, argento, tartaruga e vetro molato

 

Prospettando su Piazza Virgiliana, nel centro di Mantova, l’imponente facciata neoclassica del Museo Diocesano Francesco Gonzaga cela l’antico monastero soppresso di Sant’Agnese, attorno al cui chiostro si snodano le sale espositive.
Al titolare del museo, vescovo vissuto tra la fine del Cinque e l’inizio del Seicento, spetta la commissione di alcune delle opere qui raccolte, che l’attivissimo membro della casata mantovana aveva fatto arrivare da tutta Europa per decorare la Cattedrale e che, ora custodite nelle sale gonzaghesche del museo, costituiscono un tesoro di straordinaria raffinatezza e di capitale importanza per gli studi storico artistici soprattutto nel campo delle arti decorative.
Sei arazzi su disegni di Henri Lerambert, pittore di corte di Enrico IV di Francia, sono testimoni del periodo trascorso da Francesco come nunzio apostolico a Parigi (1596-’98), mentre oggetti quali la Croce di Clemente VIII o l’Urna di Santa Barbara, profluvi di cristalli di rocca, oro, argento e pietre preziose, sono da legarsi alla committenza di un altro Gonzaga, il duca Vincenzo I, che ricevette in dono la prima dal pontefice Aldobrandini e acquistò la seconda a Venezia, per collocarla sotto la mensa dell’altare maggiore della mantovana basilica palatina dedicata alla santa.
Il museo accoglie poi le opere provenienti dalle chiese del territorio, che permettono di delinearne il carattere dal I al XVIII secolo e comprendono le rare armature quattrocentesche che si celavano dentro le statue in cartapesta nel santuario delle Grazie (dove dividevano la navata con un coccodrillo impagliato!), le terrecotte del precoce coroplasta Michele da Firenze dalle parrocchiali di Governolo e Poggio Rusco e i busti all’antica di Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto l’Antico, creati per il vescovo Ludovico Gonzaga, e originariamente collocati nella residenza privata di Gazzuolo, poi al Seminario Vescovile e, infine, al museo.
Ma non solo. La vasta quadreria conta decine di dipinti, come i tondi che decoravano la cappella funeraria di Mantegna nella chiesa di Sant’Andrea, affrescati da un giovane Correggio ancora intriso dell’insegnamento del maestro, o la grande lunetta del romano Domenico Fetti giunto in città al seguito del cardinale Ferdinando Gonzaga, fino a diverse tele del pittore locale Giuseppe Bazzani, tra forme rubensiane e colorito vibrante della tradizione veneziana.
L’allestimento attuale è stato realizzato nello scorso decennio, anche se continuamente perfezionato e migliorato, e comprende alcune sale che espongono in un’atmosfera scenografica da Wunderkammer un cospicuo nucleo di avori provenienti dalla Cattedrale, ma anche da lasciti di privati, così come, da un collezionista mantovano, arriva al museo l’ampia raccolta di smalti di Limoges recentemente studiata da Paola Venturelli.
È proprio la vocazione ad accogliere donazioni da generosi collezionisti che muove l’esposizione Splendore dei riti Antica oreficeria sacra da un’inedita collezione privata (fino al 9 gennaio, a cura di Marco Rebuzzi e Andrea Pilato, catalogo Publi Paolini, Mantova, € 45,00).
In una delle sale del thesaurum, suggestivamente accolti dentro armadi da sagrestia, sono esposti poco più di un centinaio di pezzi della collezione del notaio mantovano Mario Binelli, che alla chiusura della mostra rimarranno tra i beni del museo.
Come rende noto lo stesso collezionista in una pagina del catalogo, la raccolta nasce dalla sua passione per i sigilli e per le autentiche, gli stessi che sono apposti da tempo immemore sui manufatti preziosi che contengono le reliquie dei santi e che venivano emessi dalle autorità ecclesiastiche per garantire l’autenticità dei frammenti.
I preziosi contenitori per le reliquie prendono le forme più disparate e originali: dai ciondoli che si portavano al collo, decorati con filigrane, micro-dipinti o composizioni in paperoles (riccioli di carta), alle capselle in vetro molato corredate da sigilli in ceralacca e da cartigli con il nome del santo titolare del frammento, fino a elaborati reliquiari architettonici, nei quali su piedi ampiamente decorati si ergono capsule trasparenti che contenevano i sacri resti.
Tra questi si conta anche un pregiato esempio uscito da una bottega lombarda nella prima metà del XVI secolo, collegabile a questo ambito grazie a quattro piccole placchette in rame smaltato che decorano il piede esalobato e che ne hanno permesso il confronto con esemplari più noti e già musealizzati.
Creati dalle manifatture di tutta Italia, e non solo, tra il XV e il XVIII secolo, sono ancora i calici (tra i quali uno particolarmente interessante di provenienza nord-italiana decorato con piccoli nielli), le navicelle portaincenso, le pissidi, gli ostensori, i turiboli, le lampade pensili, gli aspersori, i secchielli per l’acqua benedetta. O ancora una singolare piccola raccolta di agnus dei, medaglioni ovali realizzati con la candida materia del cero pasquale, che venivano benedetti direttamente dal papa, il più antico dei quali risale al 1590, durante il brevissimo pontificato di Gregorio XIV.
Tutti gli oggetti sono ampiamente descritti nel rigoroso catalogo a cura di Andrea Pilato (con alcune schede di Elena de Laurentiis), dove sono divisi per area geografica di produzione e corredati di ampia bibliografia, andando a comporre una solida aggiunta ai testi sulla disciplina.
Una buona parte della collezione Binelli è composta dalle Paci, i rilevi metallici raffiguranti immagini sacre che, a partire dal tardo Medioevo, venivano baciati dal sacerdote e dai fedeli durante la liturgia.
In mostra, al centro della sala, a fare compagnia ad una croce astile toscana del XIV secolo, una selva di Paci fuse dal Quattro all’Ottocento testimonia la storia lunga di questi manufatti liturgici, la cui ideazione è sempre da leggersi in stretta relazione con la produzione pittorica e scultorea coeva. Così una Madonna del latte in bronzo di Galeazzo Mondella detto il Moderno non può che essere collegata a un dipinto del Giampietrino della Galleria Borghese, una Veronica metallica di scuola tedesca a un’incisione di Martin Schongauer e un’Adorazione dei pastori si rivela la traduzione in ottone di un dipinto di José de Ribera della metà del Seicento.
Questa sorta di scrigno delle meraviglie allestito nel cuore del Museo Diocesano ha il sapore del felice ritorno di un patrimonio così importante in una sede pubblica, fruibile sia per la sua importanza cultuale, che anche per il suo rappresentare un ventaglio di esempi qualitativamente altissimi delle manifatture artistiche dell’intera Europa.