L’occhio più attento avrà notato qualche attimo di esitazione, quasi una forma di timidezza. Poi si sente l’odore acre e inconfondibile. Un ragazzo appena maggiorenne alza le braccia ed esclama un liberatorio: «Ho acceso il ‘miccione’». La sigaretta passa di mano in mano. È marijuana autoprodotta, giurano. Significa che non viene dal mercato che le mafie gestiscono e che il proibizionismo alimenta.

A quel punto, e sono da poco dopo le 15 di un sabato pomeriggio al centro di Roma, questa diciannovesima edizione della Million Marijuana March può iniziare per davvero. Il fumo dell’erba divampa, come un prato secco incendiato da una scintilla si dà fuoco alle trombe. Si snoda un serpentone accompagnato dall’odore della marijuana e puntellato da cinque camion con sound system e migliaia di persone, nella stragrande maggioranza giovanissimi. È un evento che da quasi vent’anni cammina sulle sue gambe, scorre in parallelo alle agende delle organizzazioni politiche e per vie sotterranee e trasversali continua a stimolare partecipazione. È un appuntamento che funziona anche al tempo del governo gialloverde, col ministro dell’interno Matteo Salvini che promette tolleranza zero e che addirittura minaccia di chiudere i negozi che vendono erba senza principi attivi.

I PUNTI ALL’ORDINE del giorno sono tre. Non c’è spazio per utopie o estremismi. Questi ragazzi non chiedono la luna, ma di essere lasciati in pace. Rivendicano argomenti chiari e inoppugnabili a chiunque abbia uno sguardo laico sulla questione dell’uso terapeutico o ludico delle droghe leggere: «Fornitura immediata per i pazienti, la fine delle persecuzioni per i consumatori e il diritto di coltivare una pianta che è patrimonio mondiale del pianeta», dicono gli organizzatori.

Compare l’immagine di Alberto da Giussano che brandisce uno spinello al posto della spada e la scritta «Legalize». Ma questo è davvero l’unico simbolo che lontanamente ricordi l’iconografia della politica. Per il resto, anche a cercarla con il lanternino, i linguaggi sono completamente differenti. Perché per le strade, da piazza della Repubblica a San Giovanni, si ritrova un popolo che ha una composizione che eccede ogni identità politica tradizionale, una moltitudine di persone che va oltre anche la galassia dei centri sociali e mescola in maniera quasi indecifrabile i tanti codici delle sottoculture metropolitane.

LA DIMENSIONE LIBERATORIA di una spinellata di massa e itinerante rende l’idea di una generazione che non cerca il conflitto frontale perché si sente aliena da Salvini nelle forme di vita prima che nelle convinzioni ideologiche. Tuttavia, questi ragazzi conoscono come le loro tasche le regole d’ingaggio delle discussioni via social, sanno che non possono accettare le provocazioni che uno di loro definisce «le trollate» del ministro dell’interno: «Abbiamo a che fare con uno che sta al governo e che scambia la canapa con la marijuana. Ma de che stamo a parla’?», dice uno sbarbato a proposito della campagna di Salvini contro i negozi che vendono prodotti a base di canapa senza Thc. «Vogliono chiudere i cannabis store? È come se decidessero di chiudere i pub che vendono birra analcolica» urla al microfono uno dei dj. «La legalizzazione non è altro che regolamentazione di un mercato già esistente», ricorda un altro cartello.

SE CHIEDI COSA ne pensano del governo non hanno una reazione automatica. Ci pensano due secondi e poi ti rispondono con semplicità disarmante: «La storia è questa: c’è un partito composto da incoscienti che ha fatto andare al potere Matteo Salvini», dice Flavia arricciando un filtrino. «Vogliamo mandare a casa Salvini e questo governo di razzisti», assicurano da un camion. La repulsione verso ogni forma di xenofobia consente di scorgere messaggi che vagamente rimandino alla grammatica politica. «Pensate quello che volete dell’immigrazione, ma il razzismo è una merda!», urlano mentre il corteo sta per entrare in piazza a Santa Maria Maggiore.

Lì a due passi c’è CasaPound. Tra piazza Vittorio e il rione Monti, ci si muove in una zona di Roma che i «fascisti del terzo millennio» hanno deciso di presidiare. Non solo con la loro sede nazionale, anche con esercizi commerciali che costituiscono una specie di filiera economica. Uno di questi è il negozio Pivert. È il marchio di abbigliamento di Francesco Polacchi, lo stesso della contestata casa editrice Altaforte. Ha aperto un punto vendita proprio all’inizio di via Merulana. Al passaggio del corteo antiproibizionista, che ha un piglio tutt’altro che conflittuale, dalle vetrine di Pivert che affacciano sulla strada decidono di abbassare le saracinesche.

SAN GIOVANNI È ORMAI in fondo alla strada, siamo all’ultimo tratto. Arriva un carrello pieno di bombe, alla crema. I ragazzi si fiondano sui dolciumi e masticano velocemente, come solo chi è in preda alla fame chimica riesce a fare. I bassi del reggae sparato dai sound system fanno vibrare i vetri dei palazzi al centro di Roma. Non tremano i palazzi del potere. Ma farebbero bene a prendere in considerazione questa piazza e non sottovalutare i movimenti sotterranei che si muovono nelle pieghe della città.