Stavolta, dopo aver lanciato la granata, il soldato Fassina si è trincerato in un insolito silenzio. Stavolta il viceministro dell’economia, sempre critico con i cedimenti neolib del suo governo ma anche sempre pasdaràn della stabilità (ritorno alle urne? «Deleterio»; governo in forse? «Rischiamo il commissariamento»), stavolta invece sarebbe pronto ad andarsene. Lui, bersaniano ortodosso e generoso, che ha difeso il leader a dispetto dell’evidenza; lui che era così poco ’larghintesista’ che Letta preferì coinvolgerlo a palazzo piuttosto che averlo fuori come spina nel fianco; proprio lui che con Matteo Orfini, ex compagno della giovane scuderia turca, era stato il primo, il pomeriggio della «non vittoria», a chiedere il ritorno alle urne, piuttosto che un governo con Berlusconi.

La voce delle sue dimissioni – non smentita né confermata, ma fermamente non commentata – è circolata ieri dopo il suo post sul blog dell’Huffington Post. Un’analisi amara della legge di stabilità, senza l’ottimismo battagliero con cui fin qui ha ogni giorno sfidato il Pdl, trascinandosi in spericolate singolar tenzoni con Brunetta; e meritandosi le guascone ironie di Renzi.

Anche ora, nonostante tutto, se la prende con i detrattori del governo, non i suoi amici della Cgil o gli imprenditori, ostaggio – scrive – «della propaganda della destra» ma con «i “riformisti coraggiosi” della sinistra subalterna al neo-liberismo».

La spesa pubblica, spiega, non va tagliata, «è tra le più basse dell’Unione europea» e così «quella sanitaria», per non dire quella per la scuola. La nota di aggiornamento al Def indica «un ulteriore taglio di 50 miliardi all’anno da più parti richiesto per finanziare il taglio del cuneo fiscale» In 3 anni è tecnicamente impossibile, si risponde, in 10 sì, ma bisogna avere il coraggio di dire la verità: «Tagliare 50 miliardi all’anno vuol dire (…) eliminare il servizio sanitario pubblico universale; ridurre di un milione i dipendenti pubblici; svuotare di ogni capacità formativa e di minimale promozione sociale la scuola pubblica». Quindi lo shock invocato da imprese e sindacati «non è nella disponibilità di questo come di nessun altro governo nazionale». Ergo: o «un’inversione di rotta nella zona euro» oppure «l’iceberg dei populismi regressivi di fronte al Titanic Europa è inevitabile».

Chi ha parlato con lui negli scorsi giorni descrive la sua – ma non solo sua – amarezza per una legge di stabilità ricevuta appena il giorno prima del varo. E un rapporto difficile con il cerchio magico del ministro Saccomanni, in particolare con il potente capo di gabinetto Daniele Cabras. E l’idea, ormai molto diffusa a casa dem, che le pratiche siano cura troppo esclusiva del presidente e del ministro Franceschini. E infatti ieri il segretario Guglielmo Epifani l’ha difeso, negando problemi sulla legge di stabilità, «Fassina lamenta la mancanza di collegialità. Credo abbia ragione». Ma non è quello che si può leggere sul famoso post.

Ora il caso Fassina è nelle mani di Letta, già oggi di ritorno dal viaggio americano. I suoi, che pure con lui in altre stagioni hanno non poco litigato, si augurano che tutto rientri. «C’è spazio per i miglioramenti del testo in aula, spero che Stefano ci ripensi», dice Marco Meloni.

Certo è che, ora che il Pdl torna a parlare di elezioni a marzo, ora che la corsa per le primarie è iniziata e che Matteo Renzi cannoneggia allegramente l’esecutivo e persino (prima assoluta nel Pd) il capo dello stato, le dimissioni della «copertura a sinistra» del Letta-Alfano, finirebbero per suonare come un segnale di allarme, e di sfinimento, di quell’ampia parte del Pd che ci ha provato, a sostenere le larghe intese, ma ha capito che, come disse Letta qualche mese fa, «questo non è il mio governo».