Mentre di decreto in decreto imprese e banche premono per continuare a dettare le linee della politica economica, dietro l’ideologia, ormai più che consunta, della crescita e l’interesse, molto più concreto, dei propri profitti, i Comuni restano al palo senza soluzione di continuità. Ed ecco allora, in attesa dell’agognata libertà di licenziamento, altri mesi di cassa integrazione, senza alcun intervento nei confronti di tutte quelle aziende che ne hanno approfittato per far lavorare le persone, ponendone i salari a carico della collettività (oltre il 30%).

Ed ecco allora sostegni continui al sistema bancario, nell’illusione – mai verificatasi nella realtà – che la massa di denaro venga da questo destinata al credito alle famiglie e alle piccole imprese. Ed ecco infine un decreto semplificazioni, il cui testo si può riassumere in una riga: «Imprese, banche, fondi d’investimento e mafie devastano il territorio di inutili e dannose grandi opere e nessuno può opporsi». Tutto nel nome di un rilancio dell’economia che rimuove qualsiasi insegnamento della pandemia sulle due grandi, drammatiche, emergenze che abbiamo di fronte: la crisi climatica e l’ingiustizia sociale.

Emergenze che richiedono una radicale inversione di rotta, a partire da una nuova centralità delle città, dei Comuni e delle comunità territoriali associate, per costruire un altro modello, basato sull’economia e la società della cura. Nulla di tutto questo si intravede nei provvedimenti in campo, e la situazione dei Comuni continua a precipitare verso il baratro del default, pregiudicandone la funzione pubblica e sociale di luoghi della democrazia di prossimità.

Eppure è proprio dalle città e dai Comuni che si può ripensare un’altra gestione del territorio e dei beni comuni, destinando le risorse oggi bloccate dalle Grandi Opere per un progetto reticolare di intervento sul riassetto idrogeologico e le infrastrutture idriche; riconvertendo i finanziamenti all’energia fossile in un nuovo modello energetico che sia pulito, democratico e auto-prodotto; fermando il consumo di suolo per progetti condivisi di riappropriazione urbana degli spazi ad uso sociale, ricreativo e culturale.

È sempre dalle città e dai Comuni che può essere ridisegnato un nuovo welfare universale, decentrato e depatriarcalizzato, basato sul riconoscimento della comunità degli affetti e del mutualismo solidale e sull’autogoverno collettivo dei servizi. O intrapresa la strada di un nuovo modello produttivo che si fondi sul «cosa, come, dove e per chi produrre». Tutte strade impossibili da imboccare, fino a quando Comuni e città continueranno ad essere intrappolati dalla gabbia del patto di stabilità e del pareggio di bilancio, funzionali a spingere la privatizzazione di beni comuni, servizi pubblici, patrimonio e territorio.

Ma qualcosa si sta muovendo e, ancora timidamente, molti Comuni e città iniziano a prendere parola per riaffermare la propria titolarità di funzioni sociali. Roma, Napoli, Aosta, Livorno, Savona e oltre una decina di piccoli Comuni hanno recentemente approvato un ordine del giorno promosso da Attac Italia. L’ordine del giorno chiede l’abolizione del patto di stabilità e una serie di misure concrete per far uscire i Comuni dalla trappola artificiale del debito pubblico.

Speriamo sia solo l’inizio di una lunga serie, che apra la strada ad un’iniziativa politica coordinata dei Comuni, e a una rivendicazione di un nuovo modello di finanza locale, che persegua il pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere e di un nuovo ruolo di Cassa Depositi e Prestiti a sostegno delle comunità territoriali. Perché bisogna «Riprendersi il Comune» per contrastare l’economia del profitto e costruire la società della cura.