Ci sono tanti modi di parlare delle tragedie, sui media. Si può informare con la cronaca, indagare con le inchieste, emozionare con le storie, svelare con gli scoop. La vicenda dell’hotel Rigopiano ha avuto, e ha, abbondante materiale per soddisfare ognuno di quei filoni. Ci sono testate che li hanno percorsi tutti, altre che ne hanno privilegiato uno o alcuni.
Il campione nello sfruttare il voyerismo emotivo, la settimana scorsa, è stato il Porta a Porta di Bruno Vespa quando, nella puntata del 24 gennaio, ha portato in video una delle sopravvissute, Francesca Bronzi, mentre il suo fidanzato, Stefano Feniello, era ancora dato per disperso, ma non del tutto e dopo spiegheremo perché.

 

 

 

Visibilmente scossa, tremante, poi in lacrime, più Francesca parlava più la telecamera insisteva con i primi piani a inquadrare il suo sforzo di trattenere le lacrime, senza riuscirci, e intanto Vespa andava avanti con le domande, chiedeva particolari, dov’era seduta lei, e lui, e che cosa facevano prima, e che cosa ha fatto e pensato lei dopo, mentre è stata lì per 58 ore, al freddo, schiacciata in uno spazio ristretto, senza più sentire la voce di lui.

 

 

Più lui domandava, più Francesca crollava, fragile e ancora così sotto choc che a un certo punto ho pensato: che aguzzino. L’ironia della sorte, o la perversione di certa tivù, ha voluto che il corpo del povero Stefano fosse trovato e identificato dal padre proprio nelle stesse ore in cui andava in onda Porta a Porta con l’intervista a Francesca, registrata poche ore prima e quindi non aggiornata sulla tragica realtà dei fatti.
Porta a Porta è una trasmissione contenitore che fa giornalismo popolare, nel senso che predilige fatti, aspetti e personaggi ad alto tasso emotivo. Avendo lavorato per alcuni anni in un settimanale che faceva dei casi di cronaca nera, bianca e rosa la propria ragione di vivere, conosco bene quel meccanismo. Uno dei comandamenti che più piacevano al mio direttore di allora era che il giornalista deve essere cinico, detto anche col pelo sullo stomaco, perché il suo primo scopo è portare a casa il pezzo, a qualunque costo.

 

 

 

 

 

 

 

Se in certi casi quel «qualunque costo» permette, e ha permesso, di scoprire e denunciare malefatte, scandali, corruzioni, orrendezze e quindi è sacrosanto, in altri diventa un’azione vampiresca e gratuita, al limite della circonvenzione di incapace, che nulla aggiunge all’informazione, ma molto regala al voyerismo.

 

 

 

 

 

Che cosa possono ricavare gli spettatori nel vedere la fragilità emotiva di una sopravvissuta? Quale utilità danno all’informazione certe lacrime? Che cosa si ricava in più scavando nel volto e nel corpo di una persona sotto choc? Che cosa aggiunge ai fatti quel dolore? Nulla.È solo invadenza emotiva, spettacolo della sofferenza offerto a chi sta a casa seduto sul divano, magari bevendo una birra o mangiando un cioccolatino, alzandosi durante la pubblicità per sistemare i piatti o lavarsi i denti. Sono più di 30 anni che faccio questo mestiere e più volte mi è capitato di dover scegliere se scrivere o no certe cose molto intime o delicate che mi erano state dette da interlocutori sprovveduti, cioè inconsapevoli del meccanismo stritolante che può innescare la stampa, perché un conto è parlare a tu per tu con una persona, un altro è vederlo scritto su un giornale.
In questi casi la decisione è sempre venuta rispondendo a una domanda semplice: serve o no alla notizia? Aggiunge o no un’informazione necessaria? Ci sono lacrime utili e lacrime che meritano pudore, dolori che aiutano a capire e altri che tutti possiamo immaginare, senza bisogno di vederli in primo piano
mariangela.mianiti@gmail.com