«Racconto la storia di una mercenaria di nome Eva, sei anni della sua vita trascorsi nella perdizione, fino all’incontro con la purezza di un cigno, e l’inizio così del suo redimersi. Per Simone Weil il contatto con la purezza provoca una trasformazione nel male. La mescolanza indissolubile della sofferenza e del peccato non può essere distrutta che da questo contatto».
A parlare del suo nuovo romanzo è Isabella Santacroce. La sua scrittura, definita da Cesare Garboli ipnotica e incantatoria, è segnata da un pensare e creare in solitudine. In bilico tra realtà e visione, fino a esplorare ciò che Rainer Maria Rilke chiamava «la foresta dei segni», dove idealmente dimorano i poeti scrittori. Nato da un’infaticabile ricerca linguistica, il nuovo romanzo è intitolato La Divina, pubblicato in edizione di pregio limitata, numerata e autografata da Desdemona Undicesima, impresa editoriale fondata dall’autrice. Nella prosa poetica di questo nuovo libro si impone il volo, siamo costantemente su vette altissime, là dove tutto è terso in un’effabile luce bianca. Leggendolo tornano alla mente le parole di Katherine Mansfield: «L’ignoto è tanto più noto del noto…e questa è una cosa terribile da sopportare».
Recentemente, Santacroce ha presentato La Divina nell’ambito di una giornata di studio dedicata ai suoi ventiquattro anni di ricerca letteraria, presso la Macroarea di lettere e filosofia dell’Univeristà degli studi di Roma Tor Vergata. Un’occasione d’incontro da cui è nata l’intervista.
Richard Wagner, Emily Dickinson, Glenn Gould, Vaslav Nijinsky, sono soltanto alcuni dei nomi di grandi artisti e pensatori rivoluzionari citati nel suo romanzo. Risalta poi la figura del re e mecenate Ludwig II di Baviera...
Dedico la mia vita alla letteratura, ne sono completamente devota, così come lo erano loro, votati alla grandezza, a essa sacrificati. Emily Dickinson è la madre di tutti gli imperdonabili. Cristina Campo cercava la perfezione della pagina, io quella di ogni sua singola riga. Penso a Wagner nella sua idea di bellezza consacrata alla cerazione di un’opera d’arte totale.
La ricerca letteraria approntata in relazione al suono delle parole, e una voce di scrittura dal tono sempre alto che permea il suo nuovo romanzo «La Divina», cosa alla quale i suoi lettori sono abituati, sembra ricordare la circolarità sonora dei riti sciamanici…
La mia ricerca del suono e del ritmo delle parole nasce dal desiderio di affatturare il lettore, incantarlo così come accade in Véxation di Erik Satie, servendomi della musica di una grazia interiore, penso, in questo senso, anche alla poesia dei madrigali del Canzoniere di Petrarca.
Da quale esigenza è mossa la necessità di estendere la creatività oltre la scrittura nel confezionare preziosi e decorati cofanetti per il suo nuovo lavoro (come per quello precedente «V.M. 18») che contengono il libro?
Perché il libro quando stampato prende distanza da me, dal corpo che lo ha creato. Lo posso in qualche modo riavvicinare proprio decorando con minuziosità i cofanetti. Questi ultimi diventano una custodia realizzata dalle mie stesse mani, una loro veste cucita dall’impronta delle mie dita.
Lei afferma che decorare è come pregare. Allude alla paziente laboriosità del fare come offerta sacrale?
Alludo alla preghiera come attenzione esclusiva e prolungata nell’operare con amore e senza previsione di ricompensa né di speranza, ma solo per contemplare la bellezza del suo risultato.
La scelta dell’immagine di copertina in «La Divina» risulta un’adesione a voler far proprio lo stile tra art déco e fetish di Natalie Shau, che presenta una fanciulla come un personaggio di fiaba gotica moderna rapita in un misticismo trasgressivo. Quindi un «alter ego» visivo?
Certo, mi appartiene. Ho trovato questa immagine dopo una lunga ricerca, e sembra Natalie Shau abbia letto La Divina per crearla. Quasi la avessi a lei commissionata. Non è la prima volta che mi accade, penso a Michael Hussar e la sua Daddy’s Girl per il mio secondo romanzo della trilogia Desdemona Undicesima, V.M.18.