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La solitudine oscena

La solitudine oscena

Ritratti Addio a Sergio Vacchi. L'artista emiliano è morto a novant'anni, dopo aver attraversato un secolo con il suo erotismo al negativo e le sue visioni cupe e blasfeme sulla Chiesa

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 16 gennaio 2016

Con la morte di Sergio Vacchi, avvenuta ieri notte all’Ospedale di Siena, la pittura viene privata di una delle voci più significative della generazione degli anni Venti. L’artista, infatti, era nato a Castenaso (in provincia di Bologna) il 1° aprile del 1925 e dalla metà degli anni Quaranta, dopo aver lasciato la bolognese Facoltà di Giurisprudenza, s’era votato alla pittura da autodidatta, nonostante una breve frequentazione dello studio dell’artista Garzia Fioresi. Ma a farlo emancipare dall’infatuazione per Van Gogh sarà il trauma avuto dalla pittura di Picasso. E così la sua prima maturazione avviene sul piede post-cubista.

Con opere post-cubiste nel 1951 tiene la sua prima personale a Milano nella prestigiosa Galleria del Milione, presentato da Francesco Arcangeli, il quale riconduce gli echi picassiani all’ottica «lombardo padana». Sono i prodromi della grande stagione informale di Vacchi (1956-1962), alla quale senza dubbio ha contribuito l’amicizia di Arcangeli, che sin dal 1954 aveva teorizzato il «nuovo» o «ultimo naturalismo», in cui inseriva Moreni, Bendini, Romiti, Pancaldi, Pulga, Bergolli ed altri, e nel saggio apparso in «Paragone» nel 1956 Una situazione non improbabile aveva esplicitamente auspicato per Vacchi di saper «portare al traguardo certe sue eventualità, e ancora non chiarite esigenze».

L’informale di Vacchi, seppur inizialmente si esprimeva con le paste alte, eredità più dell’infatuazione per Van Gogh che del materismo dell’art autre, si orientò ben presto verso un visceralismo esistenziale che lo contraddistingueva fortemente rispetto ad altri protagonisti dell’Informale italiano (e non solo). Sarà sulla scorta di tale visceralismo «divorante», per riprendere un’aggettivazione di un suo dipinto del ’58, cioè Famiglia divorante, che scaturisce nel 1962-63 la serie di gouaches e dipinti, tra l’osceno e il blasfemo, de Il Concilio, dipinto a Roma, dove l’artista s’era trasferito all’inizio del 1962.

vacchi
Sergio Vacchi

L’impatto con la capitale del cattolicesimo, ancora così barocco nella liturgia, per lui fu così traumatico da spingerlo criticare la Chiesa. La mostruosità delle immagini del Concilio, impreziosite dall’utilizzo di porpora, oro e argento, direttamente desunti dalle chiese barocche romane, si dipanano in guardie svizzere, partorite dalle nasute figure del precedente «delirio» informale, in figure viscerali di papi con connotazioni di sgradevoli animali, nonché già pregne di un erotismo negativo, fatto di simbologie falliche, vaginali e anali, collaterali a immagini con chele benedicenti, teste di schifosi rettili e corpi flaccidi, come molluschi riemersi dall’inconscio.

Nel 1964 Vacchi, invitato alla Biennale di Venezia con una sala, vi espose Il Concilio, suscitando la reazione del patriarca della città lagunare, che proibì ai cattolici di visitarla. Ormai Vacchi era consacrato e conosciuto fuori d’Italia e molto apprezzato anche nell’ambiente cinematografico, tanto che parecchie sue opere entrarono nella collezione Ponti-Loren.
Ne Il Concilio già si coglieva il turgore di una figuratività, che presto confluì nel filone della cosiddetta Nuova Figurazione, che tuttavia l’artista emiliano interpretò in modi autonomi e molto originali. Nel 1966 approdò al rovescio della medaglia del potere, appunto quello imperiale, con la grande ondata dell’enorme Morte di Federico II di Hohenstaufen – notturno italiano, inizio di una serie in cui comparivano statue marmoree al telefono. Seguirono il ciclo Galileo Galilei semper…, in cui nell’ambito di un continuo spostamento semantico compare anche un megafono mentre Galileo fa calcoli matematici (1967), l’altra grande composizione Finisterre (1972) e il cospicuo ciclo del Pianeta, documentato dalla monografia di Roberto Tassi (Bora, Bologna 1973), in cui simboliche colonne falliche costellano le scene del ciclo Le piscine lustrali.

Tutta la produzione di questo pittore estroso, che ha sempre metabolizzato la realtà con un’immaginazione senza freni, in cui la donna ha costituito un leit-motiv differentemente declinato, sul finire degli anni Settanta addirittura su ante di porte domestiche (ciclo delle Porte iniziatiche, 1982-83), anche se negli anni Novanta s’è dedicato a cicli di autoritratti e di ritratti di personaggi amici e noti, tra cui Morandi, Moravia, Volponi, Pollock, Greta Garbo, ecc. (Capricci, Volte Face, 1989-91), che egli paragona alle «scatole nere».
Nel 1997 si trasferisce nel Castello di Grotti, presso Siena, dove crea la Fondazione Vacchi. È qui che riprende a dipingere la Garbo: «Negli ultimi dieci o quindici anni – confesserà – ho rincorso Greta Garbo, l’ho chiamata, l’ho invocata, l’ho pregata di fermarsi, di farsi raggiungere, l’ho ritratta innumerevoli volte…».

Nel 2009, quando ormai l’artista, malato di Parkinson, non dipingeva più da un paio di anni, Enrico Crispolti pubblica con Skira i tre tomi del Catalogo ragionato dei dipinti 1948-2008, sottolineando gli aspetti «autodivoranti» della pittura di Vacchi, nonché «la storicità reale, benché consapevolmente ‘avulsa’, introiettivamente d’oggettivazione ‘metasoggettiva’, del suo magistero creativo, che ha riscattato la sfera dell’identità individuale a misura di possibile autentica identità societaria».

Senza dubbio, Sergio Vacchi con la sua pittura ha raccontato un proprio mondo interiore, non privo di riferimenti al mondo reale, sempre veduto simbolicamente e in modo personale. Ed è ciò che lo ha reso unico nel panorama della pittura italiana.

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