Eremìa, «solitudine» in greco, è il primo disco da cantautore di Ettore Castagna, dopo tante prove con gruppi di folk progressivo, un’esperienza dipanata in quasi cinquant’anni di musica e ricerca. Da affiancare al lavoro di antropologo, documentarista, scrittore, saggista, concertista. Da qui partiamo per la chiacchierata con Castagna.

C’è un tasso molto alto di ospiti in «Eremìa». Un esorcisma della solitudine?
In Eremìa si incrociano più storie in realtà. L’album è nato in un momento di acuta solitudine, durante il dramma del Covid. Ho perso amici e parenti e qualche riflessione sul senso di questa vita l’ho fatta. A furia di stare solo ho scoperto la Rete e ho iniziato a spedire file in giro per il pianeta chiedendo e motivando ad altri poveri cristi chiusi in casa con quello che mi sarebbe piaciuto. C’era tanto tempo e tante solitudini a distanza per fare un lavoro accurato.

Nella realtà dei fatti, come annota la scrittrice Judith Schalanski, «Ciò che è al margine è il centro del mondo» o «Lo spazio bianco nei libri di storia». Sei d’accordo?
Mi interessano solo i perdenti, gli ultimi, gli sfigati di Lupo Alberto. I ricchi, in genere, hanno poco da insegnare. Da sempre mi interessa la dignità della persona. È in quello che cerco il racconto, il romanzo, la canzone d’amore, l’accordatura dell’ancia, il battere della corda. È una specie di filo rosso che scorre nei miei romanzi, nelle mie canzoni, nei progetti delle band dove ho militato, prima fra tutte Re Niliu che su World Music Magazine fu definita all’epoca «band seminale della world music italiana». La storia sta nella scarpa consumata dal cammino, nel martello usurato dal lavoro, nell’indumento dismesso che non siamo più disposti a indossare. Poi nella credenza in cui nessuno è più disposto a credere, nel racconto che nessuno vuole né raccontare né ha più la pazienza di ascoltare.

Dove va e dove credi andrà la tua canzone d’autore storico/esistenziale/globale e locale assieme?
La dimensione del cantautore mi piace e mi diverte. Soprattutto perché mi pare di aver trovato una lingua musicale mia. Ogni canzone è il mio albero di Natale dove metto tutto ciò che mi pare luccichi, mi entusiasmi, mi commuova. Ho grande ammirazione per quelli che riescono a mettere un romanzo intero dentro una canzone… Cohen, Springsteen, Dylan per citare i giganti, e allora ci provo. Ho manie di grandezza. In fondo quando ho scritto il mio primo romanzo, Del sangue e del vino, volevo scrivere una mia Odissea.

A proposito di giovani… Cosa ne pensi del giovane Davide Ambrogio, musicista ricercatore calabrese un po’ sulle tue orme? Ti pare di aver scoperto altri giovani interessanti?
Ho stima di Davide. Ha gusto, serietà e capacità di ricerca sonora ma è un’eccezione. Sono pochi nel Sud Italia quelli come lui. Parlando di un musicista giovane completamente diverso ho altrettanta stima per la sensibilità fuori dal comune di Simone Martino. Sempre fra i giovani talenti metterei Alessandro Santacaterina che mi pare il Paolo Angeli continentale, Giuseppe Muraca e Giuseppe Ranieri nel mondo delle zampogne, la voce cristallina di Jenny Caracciolo, il talento tecnico camaleontico polistrumentistico di Mimmo Morello.

Come vedi oggi il tuo viaggio da antropologo e musicista?
Non esistono culture ferme, ipostatiche, presepi cristallizzati pronti per rallegrare le nostre inguaribili pulsioni etnografiche di occidentali che hanno bisogno di scoprire il puro, il primitivo, l’incontaminato, il buono e il cattivo selvaggio. Le cose cambiano e così le culture e i terreni di ricerca. Quando negli anni Ottanta chiedevo ai contadini della Jonica se si ricordavano del loro strumento antico, la lira, certi mi rispondevano già che la conoscevano benissimo ma non se la volevano ricordare perché conteneva la memoria della fame, dell’essere scalzi, del fare un lavoro da servi e da sfruttati. La persona che mi ha insegnato a suonare la chitarra battente, Micu Tropìa di Siderno, una volta mi disse: «Professore, io non ci credo che hanno bucato il cielo e sono andati sulla luna». Insomma mi trovavo seduto davanti alla cosmologia del Basso Medioevo che non voleva morire. Quella generazione anagraficamente non c’è più e si è portata nella tomba una cultura altra, diversa, non omologata a quella occidentale. Oggi l’antropologo deve essere pronto davanti a un mondo molto mutato.

Suoni molti strumenti, a quale in assoluto ti senti più vicino?
Sono felicemente poligamo. Amo gli strumenti storici perché hanno un’anima, vibrazioni primordiali che ti fanno vedere angeli della conoscenza e demoni pitagorici. Parafrasando Cohen direi che certi strumenti vanno inseguiti fino allo sfinimento sino a quando non si arrendono. La chitarra battente è quella chitarra e quella precisa vibrazione, quella frequenza, pure quell’odore magari. E così una zampogna o la lira.

Quanta ricerca ti è costata il romanzo «I gabbiani vengono tutti da Brooklyn», edito da Sensibili alle Foglie?
Dal 2016 ho iniziato a pubblicare romanzi. Ho vagato fra realismi magici, romanzi di formazione e la quasi docufiction dell’ultimo lavoro I gabbiani vengono tutti da Brooklyn. La mia formazione di antropologo mi ha dato degli strumenti fondamentali con cui osservare il mondo, un paio di occhiali che aguzzano la vista sul mondo. Sono riuscito a scrivere la storia del piccolo anarchico calabrese Giuseppe Zangara quando sono andato oltre gli archivi americani e quel poco di saggistica internazionale su di lui, quando sono entrato nei suoi quarantanove chili e nel suo metro e cinquanta d’altezza, nella sua malattia di stomaco di cui riteneva, come vedremo giustamente, responsabile il capitalismo.

La lingua dei «Gabbiani» è una sorta di «calco» del parlato, del calabrese, dello slang. Come l’hai costruita?
Tutto il mio percorso di scrittore si basa su quella lingua. È l’italiano distorto, dialettale, mezzo neologistico dei calabresi ex contadini, emigrati in mezzo mondo, è la lingua magnifica degli analfabeti che hanno digerito di traverso la scuola, le ricette del medico, Sanremo, il telegiornale nello sconvolgimento migratorio che ti fa diventare calabrese «u bisinissi», «Brucculinu», «la cadillacca», «la sticca» e pure «u fruzzu»… Per non parlare della «uoscmascina».

Anche tu, a quanto pare sei diventato oggetto di studio, che effetto ti fa?
Ovviamente mi fa senso. Si moltiplicano gli studenti che mi intervistano per le loro tesi di laurea. Sono un pezzo da museo evidentemente. Negli ultimi anni chi mi telefona mi dà solo del Lei. Il Tu giovanile è sparito. Quelli del Sud mi danno del Voi che è ancora peggio perché significa che sei sopratutto anziano. Il Voi è per i nonni, è la persona del rispetto. D’altra parte non ci posso fare nulla. Ho i capelli bianchi e non voglio tingerli. Forse prima o poi di qualche colore anomalo.

Qual è il musicista con cui sogni o speri di collaborare, se c’è?
Ne avessi solo uno! Ho corteggiato a lungo e senza speranza Robert Wyatt per un brano su Eremìa ma ero consapevole sin dall’inizio che molto difficilmente avrebbe potuto accettare. Devo dire però che ho l’imbarazzo della scelta, nel mondo della musica trovi tanti fratelli.

E lo scrittore con cui scriveresti un libro a quattro mani?
Non sono capace di scrivere a quattro mani, non sono capace di dimensioni come i collettivi di scrittura. Oscillo fra abissali insicurezze ed eccesso di solidità. Poi sono permaloso nelle scelte stilistiche, nella ricerca dei suoni perché è un discorso nel quale sguazzo, mi diverto. Amo scrivere, per me è un piacere direi sessuale. Coltivo una inutile gelosia per questi sentimenti che non mi rendono capace di scrittura a quattro mani.

LA BIOGRAFIA
Ettore Castagna, nato a Catanzaro nel 1960, ha praticato molte discipline artistiche e indagato in molti campi del sapere. È antropologo con sguardo particolarmente attento alle culture musicali della sua Calabria, in particolare le culture ellenofone, interesse negli ultimi anni allargatosi anche alla Grecia e alla Turchia. È stato uno dei principali «riscopritori» della lira di Calabria, diretta discendente da quella antica greco-bizantina, e suona molti altri strumenti: chitarra, chitarra battente, zampogne e flauti. Documentarista, didatta di pratiche musicali e coreutiche, curatore di mostre e saggi monografici, negli ultimi anni s’è dedicato anche alla letteratura e, dopo aver fondato molti gruppi, a una forma di canzone d’autore attraversata da riferimenti alle culture popolari.