Che cosa sappiamo della Finlandia, paese ospite della Fiera del Libro di Francoforte? Ammettiamolo: ben poco. Di più, forse – con pazienza, autocritica e buona volontà – potremmo sapere dell’immagine che ci siamo fatti della Finlandia. E forse, su questo, la letteratura non avrà l’ultima parola, ma di certo offre uno sguardo privilegiato. L’esotismo vola e si poggia dove gli pare e noi italiani, da qualche anno a questa parte, in quanto a esotismo non siamo secondi a nessuno. Amiamo i paradisi altrui, ma abitiamo i banalissimi inferni in cui ci siamo cacciati con le nostre mani.
Basta uno sguardo, anche solo di passaggio, al padiglione 5 dove, fatta eccezione per alcuni – i soliti, bravi, industriosi piccoli/medi editori – regna la più assoluta tristezza. Sono 200 gli editori italiani presenti, non tutti esenti da colpe per un degrado che si respira «a piene mani», come diceva Esenin. Ma di Esenin, qui, non c’è nemmeno l’ombra. C’è invece l’ombra di Baricco, che ci dicono ospite italiano della Fiera – ma lo stand della sua Scuola Holden sembra desolantemente vuoto – e gli ultimi libri di Vito Mancuso. Si vede poco anche nel «Punto Italia», insomma. Ci saranno le trattative, i libri comprati e da far tradurre sfruttando qualche cervello che, non essendo nato ai Parioli, non può nemmeno permettersi la fuga. Ma così va il mondo. E se Confindustria – notizia di questi giorni- afferma che a scuola dobbiamo insegnare più inglese e meno storia dell’arte, poi non dobbiamo meravigliarci che le cose vadano come vanno. È finito il tempo di Mattioli, ma persino quello di Cefis – detestabile quanto vi pare, ma almeno conosceva Kant.
«Punto Italia», già dal nome la direbbe lunga. È tutto un «Casa Italia» un «Forza Italia», un «salva Italia», «rilancia Italia» dalle nostre parti.
Inaugurato l’altro ieri dal Ministro Dario Franceschini con la delegazione dei vertici dell’Associazione Italiana Editori, proprio in quel «Punto» da cui è passato il ministro – autore, ricordiamolo, anche di due romanzi editi da Bompiani, uno dei quali tradotto da Gallimard – fa capolino non Dante, non Leopardi e nemmeno Saviano, ma l’ultima edizione – 439 pagine – del Cammino del cinabro, corposa autobiografia-testamento del fascistissimo, anzi nazistissimo barone Julius Evola, edito per la prima volta nel 1972 e oggi ripresentato al lettore in nuova veste e curatela. Nulla di male. Se il libro è merce, una merce vale l’altra, ma chissà se se ne è accorto, il Ministro. In effetti, non possiamo dar torto a chi ha deciso di piazzare il libro proprio lì: Evola lo esportiamo benissimo, è col resto che ce la caviamo male. Surkhamp espone un intero scaffale con decine di libri di Arno Schmidt che da noi continua a latitare, essendo considerato «cosa da snob e filologi». Il mondo è strano, ma anche la stranezza cambia quando cambia la prospettiva.
Sia come sia, i comunicati stampa di due giorni or sono annunciavano in pompa magna che questo «Punto Italia» era un concentrato di eccellenza – altra parola da abolire – in uno spazio di 300 metri quadri, con 1300 titoli e 47 case editrici rappresentate. Basta scendere di un piano e fare il confronto con lo stand della Repubblica dell’Iran, con la Repubblica Ceca o con gli indonesiani (ospiti d’onore della prossima Buchmesse), con la Romania o la Thailandia per cadere dalle nuvole.
Inutile dire che la Finlandia ha fatto le cose per bene e in ben altro modo. E si è pure permessa il lusso di una piccola, neppure troppo velata polemica tra la brava e pluripremiata Sofi Oksanen e il Presidente della Repubblica Sauli Niinistö. Ce lo vedete, voi, uno scrittore italiano che in una cerimonia ufficiale decostruisce completamente i luogi comuni della prima carica del suo Stato? Non lo inviterebbero nemmeno.
Così, basta leggere il titolo dato dalla scrittrice Sofi Oksanen al suo intervento alla cerimonia di apertura della Buchmesse 2014, tenutasi martedì scorso, per capire: Santa Claus parla finlandese. Già, e le renne, come tanti pecoroni, lo seguono. Ma il discorso di Oksanen è sottile, parla di minoranze, di resistenza della parola alla propaganda, di necessità di leggere la storia anche con gli occhi della letteratura. E di questioni di genere, in una lingua, il finlandese, che non ha genere. Ecco, chiediamoci ancora: che cosa sappiamo della Finlandia, a parte ciò che sappiamo delle renne, di Santa Claus, a parte la retorica sulla scuola efficiente, sul welfare inaffondabile, sui panorami mozzafiato e sulle crociere sul Baltico? Rigiriamo la domanda: che cosa sappiamo noi, lettori, di Sofi Oksanen, trentottenne di origine estone, scrittrice senza compromessi, di successo globale (Italia esclusa), vincitrice del Prix Fémina in Francia e dei più prestigiosi riconoscimenti nordici, che i finlandesi hanno scelto per aprire la Buchmesse? Eppure alcuni dei suoi libri più importanti – dalle Mucche di Stalin a La purga editi da Guanda, fino al recente Quando i colombi scomparvero uscito da Feltrinelli – sono a disposizione dei volenterosi, nei magazzini degli editori italiani. Perché? La domanda tocca uno snodo culturale importante, decisivo forse per la nostra cultura. Troppo decisivo per schermarlo dietro «strategie sbagliate di marketing». La letteratura non è marketing – altro miserrimo esotismo. Qui si incrociano problemi di ricezione, di formazione e via discorrendo. Qui si intrecciano pratiche che abbiamo svilito, in nome di un mercato in cui non riusciamo nemmeno a stare.
La letteratura, però, se è davvero tale vola più alta di certi orizzonti (e l’esotismo che cos’è, se non un orizzonte troppo stretto amplificato da specchi?) e i suoi lettori in un modo o nell’altro li raggiunge sempre. Oksanen concludeva il suo discorso con una affermazione su cui riflettere: «solo la parola libera può volare». Se ci sarà una lezione da mandare a memoria, di questa Buchmesse, è proprio nel delizioso, calibrato coraggio di questo donna. Santa Claus, con le renne e la slitta continuerà a correre all’infinito. A noi decidere se continuare a inseguirla come tanti pecoroni, cambiando solo l’immagine sullo sfondo (la Finlandia oggi, l’Indonesia domani) o cominciare a incidere, finalmente, sul nervo oramai insensibile di quella cosa che ancora per un po’ – ma per quanto? – continueremo a chiamare «cultura».