Parlare di Liana Borghi che ci ha lasciat* non è facile perché il legame affettivo è strettamente collegato all’intreccio politico culturale: nel suo cammino e nei suoi slanci apriva e spostava orizzonti e da lì ci ha detto addio. Quando da Bologna si trasferisce all’Università di Firenze, Liana s’impegna a creare una interazione fra l’allora Libreria delle donne, il Giardino dei Ciliegi, l’Università e la comunità internazionale Lgbtq che frequentava.

Con il progetto interculturale Raccontar/si inizia la nostra più stretta collaborazione, chiedendoci con Sara Ahmed «Se a causa dell’ineguaglianza e l’ingiustizia del mondo diventiamo femministe, che tipo di mondo stiamo costruendo?». Sotto la sua spinta il Giardino così si apre ai temi del lesbofemminismo e dei nuovi studi di genere, accogliendo suggerimenti post-identitari, post-strutturalisti, post- coloniali e queer.

La prima scuola residenziale estiva, in collaborazione con la SIl di cui è stata fondatrice, è del 2001 e continua fino al 2008, interrompendosi per mancanza di sostegni pubblici ma articolandosi in varie iniziative e convegni annuali: quest’anno «Neomaterialismo e fantascienza delle donne: intramazioni» (30 e 31 ottobre), ideato da Liana anche se poi non ha potuto seguirlo di persona. Il sito www.raccontarsialgiardino.it raccoglie i materiali relativi a queste esperienze mettendo in luce i temi trattati spesso anticipatori di problematiche odierne, quali agentività ed empowerment, diversità, figur/azioni, il post-coloniale, archivi dei sentimenti, utopia della politica e politica dell’utopia.

LIANA HA SEMPRE LAVORATO sull’analisi e decostruzione di dicotomie – con Donna Haraway e il concetto di naturcultura, il manifesto cyborg, gli umani e non umani delle sue specie-compagne – e con Teresa De Lauretis e Judith Butler per la ricerca dell’altro che è in noi. Quindi le teorie dell’affetto incontrate nella pedagogia queer di Eve Sedgwick. Con la sua curiosità instancabile ha poi riflettuto sugli studi neomaterialisti cercando di spostare i confini tra l’umano e il non-umano, corpo e materia, ponendo domande su come viviamo queste idee, e come queste agiscano sulle pratiche di omologazione, connivenza o resistenza nell’insopprimibile potere del reale. Ha anche lavorato sull’archiviazione dei sentimenti nelle culture pubbliche, cercando risposte culturali e politiche di dissenso e resistenza, nelle scritture sul trauma per violenze omofobiche, xenofobe, razziste, nelle narrazioni di migranti, e nei documenti delle diaspore dei neri o degli ebrei.

Poi la teoria quantistica con Karen Barad e la pratica della diffrazione nel leggere/legare in modo creativo vari scritti l’uno con l’altro per «“attraversare confini disciplinari e modificare testi diversi aprendone il significato», infine l’interesse per Bayo Akomolefe e le sue storie di fallimenti, ferite, e di «tutte le cugine delle crepe». Di fronte a tali orizzonti di ricerca, come anche le più giovani testimoniano, Liana si configura maestra di pensiero e di pratiche, in un confronto/scambio continuo e fecondo.

SE A RACCONTAR/SI Liana chiedeva, implicitamente, ogni volta, di contribuire a realizzare una piccola utopia contingente, costruita nell’immediato praticando una socialità amorevole e trasformativa, creando «legami fatti di interrelazione, di reciprocità, di vicinanza», ha indotto chi l’ha frequentata a ripensare gli affetti, riconsiderando in modo etico-politico neomaterialista la kinship, la famiglia non biologica, quelle relazioni intramate di atti di cura reciproca e del piacere di stare insieme condividendo passioni, legami emotivi e reti solidali.