Bologna- L’antica Felsina, l’attuale Bologna, era tra le città più ricche ed evolute del continente. Nel ‘700 a.C. vantava una aristocrazia fiorente e un cospicuo esercito, e mentre Roma stava muovendo i primi passi Felsina guardava all’oriente richiamando raffinati artigiani dalla Siria e dalle zone vicine. In questo ricco contesto nasce la corrente artistica denominata «Arte delle situle» (vasi in bronzo decorati a sbalzo ed incisione utilizzati originariamente come contenitori di vino) che si sviluppa in alto Adriatico tra il VII e il V sec. a.C. Attraverso di essa le aristocrazie locali per la prima volta ricorrono alle tecniche figurate per raccontare la vita di corte e quella cittadina fornendoci così una fotografia altamente realistica di un vasto mondo che si estende dai Veneti ai Piceni, dagli Etruschi della Pianura Padana ai Reti delle Alpi centrali e fino agli Istri; dall’Italia centro orientale e settentrionale fino all’Austria danubiana e alla Slovenia. Decorate a fasce, le situle ritraggono motivi vegetali, animali fantastici e scene di feste e altre celebrazioni con protagonisti gli esponenti della classe aristocratica.
Tra le molte ritrovate, la situla della Certosa, esposta al museo archeologico di Bologna è, assieme alla situla Benvenuti di Este (PD), la meglio realizzata e quella con il racconto più affascinante. Venne rinvenuta da Antonio Zannoni nella tomba n. 68 del sepolcreto di piena fase etrusca (480 a.C.) scoperto nei terreni della Certosa di Bologna e scavato fra il 1869 e il 1876.

Datata attorno al 600 a.C., al suo interno erano deposte le ceneri combuste di una donna fra i trenta e i quarant’anni, accanto ad esse un unguentario attico a vernice nera, una ciotola di argilla e due fibule in bronzo. Il raffinato vaso, realizzato almeno un secolo prima della sua deposizione nella sepoltura, fu utilizzato a lungo probabilmente per la sua splendida decorazione. Le scene figurate, distribuite su quattro registri, rappresentano dall’alto al basso una parata militare, una processione di personaggi che recano vari utensili per un sacrificio e il banchetto, una gara musicale tra scene di caccia e di aratura e infine una sequenza di animali reali e fantastici. «In nessun angolo del continente – esclusa la Grecia – esiste un’opera così ricca nella forma e nei contenuti. Si tratta di un racconto impaginato con grande maestria e straordinariamente ricco di riferimenti semantici» scrive lo studioso Luca Zaghetto nel suo ultimo volume, La situla Certosa di Bologna. Alle origini della ritualità nell’Italia protostorica, AnteQuem editore. Un lavoro originale sia per il metodo di lettura delle immagini, sia per le conclusioni.

Pur essendo così famosa, gli studiosi non concordano né sul filo conduttore della narrazione né sul tema centrale della situla. È una raffigurazione realistica o immaginaria? Vi è ritratta un’intera comunità o solo una sua parte? L’esercito è fittizio, cioè rappresenta gli antenati con le loro armi ormai desuete, oppure è un esercito reale, una milizia simile a quella che Servio Tullio, alcune decine di anni più tardi, con la sua nota riforma, istituirà a Roma? Questi i numerosi interrogativi a cui Zaghetto fornisce le sue risposte. L’interpretazione dei reperti iconografici, tanto più se non accompagnati da iscrizioni, è per l’archeologia un percorso complesso sul quale gli studiosi si dividono: chi ritiene che le opere riportino immagini realistiche che riproducono scene di vita quotidiana e in particolare le festività o le cerimonie. Chi sostiene invece l’ipotesi che ritraggano episodi di tipo funebre o relativi all’Aldilà. E infine chi propende per la lettura mitologica ovvero che siano qui riportati i miti propri delle singole popolazioni interessate dal fenomeno artistico. A parere di Zannoni, scopritore della Certosa, le immagini rappresentavano usi e costumi degli Umbri che, secondo lui, popolavano Bologna.

Pericle Ducati, altro studioso della storia bolognese che nel 1923 ha dedicato alla situla un intero volume, riteneva che la lunga teoria di militari e civili rappresentasse invece un corteo funebre come testimonierebbero sia la legna per la pira sia l’ossuario, uno dei vasi portati in processione.

Nel suo corposo volume Zaghetto boccia l’ipotesi funebre poiché manca il defunto e i gesti tipici delle rappresentazioni funerarie. Ritiene invece che la Certosa rappresenti cerimonie pubbliche di carattere sacro, ravvisando in particolare una forte corrispondenza col rituale dei Suovetaurilia. «La mia ipotesi è che si tratti di cerimonie sacre e rituali alquanto affini a quelle descritte nelle Tavole Iguvine (sette tavole in bronzo rinvenute a Gubbio e risalenti al III-I sec. a.C.) ». Il contesto descritto dalle immagini sarebbe una cerimonia (lustratio) rivolta sia al popolo in armi, sia alla città e ai suoi confini, svolta secondo le norme e la tradizione tipicamente etrusco-italica. Il corteo militare del primo registro rappresenterebbe, come a Roma e a Gubbio, il momento della benedizione (lustrazione) dell’esercito. La sfilata civile del secondo e terzo registro ritrarrebbe invece i sacerdoti e le vestali che girano attorno alla città per (ri)tracciarne ritualmente i limiti, e per arrivare infine alla festa e ai giochi in una abitazione privata, proprio come avviene nei souvetaurilia romani dove le celebrazioni si concludono a casa del priore. Una sfilata marziale ma anche agraria a cui rinvierebbero, come a Roma, anche i due sacrifici ritratti: quello del cane, rivolto alle messi, e quello seriale del toro, dell’ariete e del suino, rivolto appunto alla ridefinizione dei confini.

Numerosi e solidi gli argomenti che portano a questa interpretazione.
Una annotazione, infine, sul metodo adottato da Zaghetto, che avevamo già incontrato nel suo volume dedicato alla Situla Benvenuti. L’autore, muovendo dalla constatazione che di fatto non esiste una grammatica dei linguaggi iconici, ne realizza una totalmente nuova. Prendendo spunto dalla linguistica strutturale di F. de Saussure e dalla semiotica interpretativa di Umberto Eco trasferisce nozioni e parti dell’apparato grammaticale della lingua e della scienza dei segni, la semiotica, a quelle delle immagini. Prima studia e classifica tutta la lingua, tutte le opere e tutti i segni dell’Arte delle situle e poi si rivolge al singolo testo. Lo smonta, ne analizza ogni singolo elemento e vi ritorna per ricostruirlo. In questa nuova grammatica gli oggetti, gli animali, i vegetali sono paragonati alle parole del linguaggio verbale e le sequenze narrative alle frasi. Legando a catena le frasi inizia a cogliere il senso del racconto, ed individuando poi i diversi collegamenti verticali tra registro e registro, mette in luce l’impaginazione del testo, dove le ipotesi interpretative prima avanzate trovano motivo di esclusione o di ulteriore conferma.

Da questa rigorosa lettura emergono l’interpretazione, ma anche segni mai colti; si tratta in particolare di coordinate di tempo e di spazio, di segni del cielo e di rimandi ambientali – così vengono interpretate alcune figure animali e vegetali – che i racconti dell’Arte delle situle sembravano non includere e di cui invece sembrano essere particolarmente ricchi.

Di rilievo infine, nel libro che si legge facilmente, l’analisi tecnologica e la fedele ricostruzione del reperto secondo i dettami dell’archeologia sperimentale del restauratore Stefano Buson, massimo esperto in materia di artigianato dell’arte delle situle, che parla di «altissima specializzazione del toreuta, vero artista miniaturista che ha saputo cesellare e sbalzare il bronzo come nessun altro».