Ho pensato di scrivere questo articolo per chiarire (non solo a Chiara Giorgi, il manifesto 4. 8. 21) come in realtà sono andate le cose con la legge Bindi del ‘99, ma soprattutto per ribadire in occasione del Pnrr (missione 6) che se oggi, dopo una pandemia, la sinistra sulla sanità non farà autocritica sulle proprie politiche del passato, sarà proprio la sinistra, in questo caso quella del ministro Speranza, a mettere a rischio la sanità pubblica.

Nella recensione al mio libro (“La sinistra e la sanità dalla Bindi a Speranza con in mezzo una pandemia”, Castelvecchi editore) Andrea Capocci (che ringrazio) coglie il cuore del paradosso vale a dire una sinistra di governo che, sulla sanità, dalla riforma del ‘78 in poi, esprime un “pensiero povero” non un pensiero riformatore autentico. E, in sanità per l complessità che rappresenta, chi non ha un pensiero riformatore finisce fatalmente per diventare suo malgrado un contro-riformatore.

L’esempio più calzante di questo paradosso è da una parte la riforma Bindi e dall’altra la politica sanitaria di Speranza, che per molte ragioni ne rappresenta la continuità politica. La riforma Bindi per me è un caso di scuola perché dimostra la tesi centrale del mio libro e cioè il peso del contesto culturale su chi decide in sanità.

La riforma 229 è solo formalmente una creatura politica di Bindi, sostanzialmente è una creatura della sinistra di governo del suo tempo e cioè dell’Emilia Romagna che su quella legge ha interferito pesantemente, della Cgil che ha imposto le sue idee datate, di distretto e di prevenzione, dei tecnocrati di sinistra che con i loro obblighi di appropriatezza hanno creato il fenomeno devastante della “medicina amministrata” , del corporativismo medico di sinistra se pensiamo all’intra-moenia (forma di privatizzazione del lavoro pubblico) , del Pd (al tempo Ds) che sulla sanità era espressione degli amministratori.

La 229 è quindi la creatura di una sinistra di governo convinta che l’unico modo per governare il problema della sostenibilità in sanità fosse la rinegoziazione dei diritti, l’adesione incondizionata all’ideologia del compatibilismo. Bindi subisce il senso comune della sinistra della sua epoca, di stampo neoliberista, dando luogo a quel paradosso che Andrea Capocci riporta puntualmente nella recensione: “per recuperare la deriva neoliberista della sanità, Bindi è stata più neoliberista degli altri”.

Ha ragione Chiara Giorgi nella puntuale ricostruzione storica delle politiche sanitarie del tempo. È vero, Bindi intuisce che dopo l’introduzione, nel ‘92, delle aziende sanitarie, bisogna raddrizzare la barra. E prova a mettere delle pezze, ma senza un vero pensiero riformatore, così finendo fuori strada. Quella sua riforma non impedì i tagli lineari, quindi il postulato compatibilista sulla base del quale era nata, accentuando il processo di privatizzazione, fornendo le basi normative per la nascita del welfare aziendale come sistema parallelo alla sanità pubblica, ma soprattutto avallò malamente quel principio che fin dagli inizi degli anni ‘90 si definì della “contemperazione” tra diritto costituzionale e limite economico che poi altro non è che la subordinazione del diritto alla disponibilità delle risorse.

Quando arriva Renzi con il Jobs act, con l’idea americana del welfare on demand, trova tutto pronto e la 229 perfezionata, con il decreto Turco del 2018, diventa la base per dare più slancio al processo di privatizzazione. Oggi la missione 6 del Pnrr ripropone gli stessi schemi concettuali. Il che fa temere che parte dei 20 mld del Pnrr sulla sanità andranno nelle tasche dei privati. Quindi riflettere sul rapporto tra sinistra e sanità non vuol dire buttare la croce addosso nessuno, ma solo riflettere sui limiti di una sinistra che in sanità non riesce a ragionare come una sinistra mettendo a rischio le nostre conquiste sociali.