Politica

La sinistra e «il sogno di una vita più bella»

La sinistra e «il sogno di una vita più bella» – Pedro Scassa

Commento Di fronte alla pessima qualità del «paese normale», la sinistra ha davanti una immensa prateria da percorrere. Le forze ci sono, ma occorre che agiscano subito

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 3 ottobre 2013

Il grande storico olandese Johan Huizinga nel suo libro forse più conosciuto, L’autunno del medioevo, mette in relazione i «toni crudi della vita» con «il sogno di una vita più bella». «Quanto più la disperazione e il dolore gravano sul torbido presente – scriveva – tanto più si fa intensa la bramosia» che spinge verso «il sogno di una vita più bella».
E in quell’autunno «la vita quotidiana offriva occasioni senza limite per passioni ardenti e puerili fantasie».
Ebbene la persona che oggi si ritiene del tutto interna ad una tradizione politica e culturale «di sinistra», si ritrova esattamente nello stato di tensione indicata da Huizinga e dunque, con la tentazione irresistibile di addolcire una realtà che gli risulta insopportabile. Con la tentazione di trovare lo sbocco ad «una passione ardente» con «puerili fantasie».
La storia del termine «sinistra» ha superato ormai i due secoli e in questo lungo arco temporale ha connotato realtà molto diverse. Anche in questo nostro tempo, nonostante le ripetute esortazioni a lasciarlo cadere, continua ad essere usato per indicare cose molto diverse tra di loro. Le autorappresentazioni di «sinistra» sono legittime e rispondono a logiche facilmente comprensibili. Persino Renzi e Letta, qualche volta, si dicono di sinistra, sebbene moderna e autenticamente riformista.
Nel caso di coloro che hanno difficoltà a coniugare la loro sinistra con quel tipo di riformismo e di modernità, si rende però necessario un tentativo di precisazione concettuale. La loro, la nostra, non può essere una sinistra generica ispirata ai valori eterni della libertà e della giustizia sociale, ma solo quella che fa riferimento a precise determinazioni storiche: quella che intende proporsi come erede della storia del movimento operaio. Una storia lunga di centocinquanta anni, una storia che nella ampia varietà di esperienze, anche conflittuali, ha sempre trovato alimento, tanto per le sue pratiche che per le sue culture, nell’ambito delle teorie critiche del capitalismo. E, come ha detto assai opportunamente Mario Tronti, «una sinistra che non ha il coraggio di dichiararsi erede della storia del movimento operaio non merita di esistere» (2001). Questo significa che la nostra sinistra di fronte a tutte le determinazioni dello stato di cose presente: politiche fiscali, politiche sociali, tutte le forme in cui si articola la lunga crisi strutturale in atto, si prova ad affrontarle con strumenti e proposte derivanti dalla consapevolezza che i meccanismi della dinamica capitalistica si pongono come problemi e non come fatti.
Sulla base di tale impostazione negli ultimi vent’anni economisti, storici, sociologi, filosofi critici hanno elaborato un complesso analitico assai differenziato, ma nello stesso tempo di grande capacità conoscitiva. Al confronto l’economia mainstream ha assunto ormai l’aspetto di una vecchia scolastica ripetitiva. Ciò peraltro non ha avuto alcun effetto né sul mutamento politico, né sulla forza pervasiva dell’ideologia dominante.
La forte divaricazione tra l’importanza del suddetto complesso analitico e propositivo e l’irrilevanza della sua traduzione politica, la tensione tra insiemi di peso così diverso, ha favorito spesso, l’illusione di una più facile via di fuga.
a) Il sogno che emerge più naturalmente, l’orizzonte più accattivante che può presentarsi, è certamente quello del recupero del Pd a politiche ispirate al concetto di sinistra di cui si è ragionato sopra. In fondo si tratta di un partito che raccoglie molti voti ed anche voti di persone che all’essere di sinistra intendono dare significati pregnanti. Un partito che ha nobili, anche se ormai lontane, ascendenze e che proprio per il suo peso può tradurre in immediata rilevanza il complesso di elaborazioni critiche degli ultimi vent’anni. È vero che assai spesso nei vari gruppi dirigenti di quel partito ci si autorappresenta come di «centrosinistra» o come semplicemente «riformisti», ma possiamo sempre credere che rimanga un flusso profondo in qualche modo derivante da quella discriminante che Tronti ha ripetuto proprio nei giorni scorsi: «Per essere riconoscibile come parte, la sinistra dovrebbe dire una cosa semplicissima: siamo gli eredi della lunga storia del movimento operaio» (5 settembre 2013). Un flusso carsico destinato a riemergere magari nel prossimo congresso.
In un articolo pubblicato su questo giornale qualche settimana fa (23/7/2013) ho cercato di argomentare le ragioni strutturali dell’impossibilità di tale esito. Ora, personalità che hanno sperato nel Pd, che continuano a sperare, fanno affermazioni che vanno proprio nella direzione delle tesi di quell’articolo. Fabrizio Barca dice che il Pd, il suo partito, è «un deserto di cultura politica» (30 agosto 2013). Barbara Spinelli ribadisce: «Il Pd non esiste, è una nostra invenzione. O un rimorso, a seconda. È fatto di persone dietro cui c’è il nulla. Puoi trovare uno, Civati o Barca, ma anche quando vai nel deserto trovi oasi che non sono miraggi. Il Pd pare vivo e di sinistra, ma le due cose sono un trompe l’oeil» (12 settembre 2013).
Vorrei aggiungere a queste affermazioni, difficilmente controvertibili, la considerazione che «deserto culturale» e «persone dietro cui c’è il nulla» sono nient’altro che la forma assunta dalla politica che ha rinunciato a considerare possibili mutamenti profondi del rapporto economia-società. Una forma, quindi, del tutto adeguata alla sostanza. Una sostanza cui solo l’ipotesi di pensare il capitalismo è ormai organicamente estranea. Una sostanza perseguita con successo in un processo di ventennale solidificazione. Credere possibile il rovescio del rovescio è davvero esemplificativo del «sogno di una vita più bella».
b) Aspetti del sogno non sono assenti nemmeno dall’universo della sinistra che, invece, intende accettare l’eredità di una lunga storia. Anche in quel campo, però, i confini sono sfumati. Ad esempio, è lì che Sel gioca o su un altro terreno? Norma Rangeri si chiede cosa farà «da grande» il partito di Vendola (8 settembre 2013). A differenza del Pd solidificato in un insieme strutturale non in grado di sopportare svolte radicali, l’esile Sel, che ha un leader ma è senza vera struttura, può agevolmente mutare rotta. A questo mutamento, che poi sarebbe quasi una «rifondazione», Piero Bevilacqua lega la possibilità di un successo anche elettorale di Sel (7 settembre 2013).
Si tratta di un itinerario possibile, ma tutt’altro che probabile. Anzi se analizziamo tutti gli elementi di realtà a nostra disposizione: proposta politica, orizzonte di riferimento, linguaggio, scelta di interlocutori, anche l’ipotesi in questione sembra una speranza immersa nelle foschie del sogno di una vita più bella.
c) Nel linguaggio delle varie sinistre esterne al cerchio del «paese normale» si usa spesso una metafora per indicare gli spazi della possibilità. Vista la qualità del «paese normale», vista la progressione implacabile della disuguaglianza come frutto delle scelte di quasi tutto il ceto politico, di fronte alla sinistra si aprono immense praterie da percorrere. Sono molti anni che tale metafora fa parte del linguaggio della sinistra e le praterie sono state oggetto più di sguardi che di percorsi. Oggi le praterie si sono addirittura ampliate, ma non pare proprio che vi sia la forza di costruire davvero una rete di percorrenze.
Una vasta letteratura si è esercitata a lungo sulle ragioni che in Italia ostacolano fortemente una ricomposizione, in qualsiasi forma, di queste sinistre. Questo giornale ne è stato, ne è, una articolata rappresentazione.
Spia della gravità della situazione anche i modi di una mobilitazione in atto dalle caratteristiche tendenzialmente unificanti: la «via maestra» (espressione molto utilizzata) della difesa e dell’attuazione della Costituzione. Ebbene persino Maurizio Landini si è affrettato a precisare che tale «via maestra» non è un percorso di ristrutturazione della sinistra. Data la situazione assai delicata si tratta probabilmente di un’affermazione tattica. Il fatto è che di tattica si muore. L’immobilismo che ne deriva è la sindrome di un male profondo che si manifesta in un dibattito controversistico insieme premarxiano e postmoderno. Premarxiano in quanto si tende sempre più a collocare in sfere differenti lotta sociale e lotta politica. (Landini forse dimentica che quando le Trade Unions non avevano referenti politici, il partito se lo sono fatto.) Postmoderno in quanto percorso dal terrore di una qualsiasi solidificazione di una struttura organizzativa. La liquidità deve essere la cifra dei movimenti rigorosamente «dal basso».
Visti questi dati di fatto anche la «via maestra» può diventare un cammino che si arresta prima di arrivare agli spazi sconfinati delle praterie. I dati di fatti sono lo specchio reale del «toni crudi» con cui deve confrontarsi la nostra sinistra. Le responsabilità di coloro che, in partiti, movimenti, sindacati, si trovano ad esercitare ruoli rilevanti, sono oggi enormi. Se non avranno la comprensione adeguata della tragicità in cui siamo costretti a costruire una storia, e non agiranno nella consapevolezza che il tempo è ora, resterà solo, come è spesso accaduto, la via d’uscita de «il sogno di una vita più bella».

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