Quello su cui lavora da quasi vent’anni David Monacchi, «cercatore di suoni» nelle foreste primarie, sono frammenti di intelligenza acustica in via di estinzione. In uno dei suoi paesaggi sonori puoi accorgerti della scala esatonale di un uccello in Amazzonia o dell’intensità sonora degli anfibi negli acquitrini in Africa, ma soprattutto quello che sorprende è la complessità ordinata di questa sinfonia naturale alla cui partitura collaborano migliaia e migliaia di specie. Frammenti in estinzione è il suo inestimabile progetto di patrimonializzazione dei paesaggi sonori registrati nelle aree non intaccate dall’uomo intorno all’equatore (5° nord e sud). In Amazzonia, nel bacino del Congo, nel Borneo, in Papua Nuova Guinea o a Sumatra. Una registrazione con 38 microfoni ad altissima definizione e una successiva riproposizione immersiva per il pubblico. Un impegno artistico e ambientalista per salvare lo scrigno della biodiversità del pianeta. A Monacchi, ricercatore e compositore elettroacustico, docente al Conservatorio di Pesaro e autore de L’Arca dei suoni originari (Mondadori, 2019) è dedicato il pluripremiato documentario Dusk Chorus di Alessandro d’Emilia e Nika Saravanja che sarà presentato, il 9 agosto, a CinemAmbiente in Valchiusella a Vidracco (Torino), con la sua partecipazione.

Come nasce la sua passione per il paesaggio sonoro?

È venuta da sé, in parallelo ai miei studi musicali. I primi soldi che ho avuto li ho spesi in microfoni e registratore. Tornare a casa con un paesaggio sonoro significa avere materiale complesso preorganizzato dalla natura, avere nelle mani frammenti che con la loro forma e struttura possono diventare composizioni. Nel 1998 vinsi una borsa di studio del ministero degli Esteri per fare ricerca al World Soundscape Project di Vancouver, fondato negli anni ’60 da Murray Shafer con l’obiettivo di registrare paesaggi sonori del mondo da archiviare per i posteri. Là, la mia passione trovò radici. E a contatto con figure come Barry Truax e Hildegard Westerkamp maturò la prima idea del progetto che mi ha accompagnato per tutta la vita, Frammenti di estinzione, che iniziò a prendere forma al ritorno dal Canada. È stato un modo di unire la vita di musicista con la denuncia ambientale, in quegli anni ero attivista di Greenpeace.

Quando ha deciso di dedicarsi ai suoni dell’Amazzonia e delle foreste primarie?

A partire dall’interesse per la sesta estinzione di massa di cui si incominciava a parlare. Venivo da dieci anni di registrazioni nell’Appennino dell’Italia Centrale. Se dentro un bosco italiano si possono registrare dei sistemi naturali di equilibrio complessi, cosa succede, mi chiedevo, se apriamo un microfono in luoghi che hanno una biodiversità migliaia di volte superiore? Ebbi immediata prova della complessità e della bellezza dell’esperimento nel febbraio 2002 quando andai con Greenpeace in Amazzonia, nell’area del Rio Jauaperi (stato di Amazonas, Brasile). Portai con me una strumentazione di alta definizione che si usa per la musica classica, per riprendere la biodiversità al massimo livello audio, con cicli di registrazione di 24 ore, fissando digitalmente il comportamento acustico dei luoghi più biologicamente complessi del pianeta, ma a rischio.

Cosa si intende per intelligenza acustica di un ecosistema?

Il suono è uno dei tanti modi in cui avviene la comunicazione tra individui. In un insieme complesso di specie come quello di una foresta, tantissimi organismi viventi devono comunicare in modo efficace sulla banda dell’udibile da 20 Hz a 20 mila Hz. Se una specie usa una frequenza, un’altra ne deve usare un’altra per non essere mascherata o inserirsi nei momenti di pausa. L’evoluzione ha posizionato le specie in modo efficace nella suddivisione frequenziale permettendo a loro di usare in migliaia lo stesso campo acustico. La foresta è un’enorme rete di relazioni.

E quando gli impianti petroliferi mascherano i suoni di alcune specie?

Un suono a larga banda e a bassa frequenza ha un alto potere di mascheramento, gli impianti in Ecuador, ripresi nel film, occupano lo spazio sonoro non permettendo a molte specie di comunicare. Ed è un disturbo all’ecosistema, alla partitura della foresta.

Quanto tempo c’è voluto per scrivere questa immensa partitura naturale?

Nello spettrogramma di una foresta primaria tutto si situa nel punto giusto. È una partitura composta dall’evoluzione delle specie, organizzata e ordinata. Questo è tanto più vero quanto meno un habitat è antropizzato e quanto più è antico. Per esempio, nei paleotropici del Sudest Asiatico, dove l’evoluzione ha avuto più tempo per disporre assieme linguaggi diversi in modo efficace.

Il suo lavoro dura da venti anni, ha mai comparato le prime registrazioni con le ultime per definire la perdita di biodiversità?

La comparazione è una parola delicata, per capire la curva di certi fenomeni acustici ci vuole tanto tempo e moltissimi dati. Frammenti di estinzione è, invece, un progetto di patrimonializzazione del paesaggio sonoro degli ecosistemi a più alta biodiversità e più antichi del pianeta, non è un progetto scientifico per tracciarne l’andamento. Ecco perché usiamo tecnologie diverse dalla bioacustica, le nostre sono ad altissima definizione per ricostruire il paesaggio tridimensionalmente.

Il materiale viene poi presentato in teatri ecoacustici, di cosa si tratta?

Dal primo viaggio abbiamo portato i migliori microfoni dentro la foresta, raffinando anno dopo anno la strumentazione. Questo ci ha permesso di archiviare non solo i timbri, le frequenze, le durate, ma anche la qualità dello spazio e la posizione di ogni sorgente sonora per riproporre una sfera sonora nella sua complessità, in un luogo specifico che abbiamo costruito inizialmente al Conservatorio di Pesaro e poi in Danimarca. Poi, abbiamo realizzato un prototipo mobile e oggi una Sonosfera per 60 persone, a Pesaro, Città Unesco della Musica, oggi fruibile su prenotazione. Si siede in un anfiteatro con 45 altoparlanti su una sfera che circonda il pubblico che siede al centro: un planetario acustico per l’ascolto di ecosistemi. La riproposizione sonora è stato uno degli obiettivi fin dall’inizio, per contribuire a cambiare quel paradigma che sta distruggendo gli ecosistemi. Frammenti di estinzione offre una fruizione immersiva di ciò che la natura ha prodotto in milioni di anni di evoluzione e lo fa nel momento in cui l’estinzione di massa sta impattando irreversibilmente sulle aggregazioni sistemiche che compongono L’arca dei suoni originari (come, appunto, si intitola il suo libro, ndr).

Le popolazioni indigene partecipano al progetto e come?

La collaborazione con i nativi è un’esigenza, senza i nativi in foresta non fai dieci metri. Come si dice alla fine del documentario è proprio grazie ai nativi delle tribù Huaorani e Kichwa che abbiamo potuto penetrare la bellezza di questi spazi inesplorati. Conoscere i connotati e condividere lo stupore nell’ascolto.