Come dirvi di Svetlana Geier? Per certi versi la sua vita è irraccontabile. Troppo vasta, innervata, complessa, crocevia della storia ucraina, russa e tedesca del ‘900 e insieme dei segreti abissali della grande letteratura … Come provare a restituire una tale stupefacente architettura di destino? Come coglierne le mille avventurose corrispondenze, i dissidi laceranti, le infinite tangenze e rifrazioni?

Per fortuna c’è chi ha sentito il bisogno di mettere la propria arte e la propria cura al servizio di questa storia, per custodirne il valore e per diffonderla. Quando Vadim Jendreyko, regista svizzero-tedesco, la incontra per la prima volta nel 2005, Svetlana Geier è una donna che ha già vissuto tanto e che porta con sé il frutto di 50 anni di lavoro come traduttrice letteraria dal russo al tedesco. Puškin, Gogol’, Tolstoj, Solženicyn, Bulgakov, tra gli altri, sono stati “ospiti” della sua mente, del suo cuore e dei suoi sensi, fino a quando all’inizio degli anni ‘90 le è stato proposto di affrontare gran parte dell’opera di Dostoevskij. Basterebbe solo questo a renderla affascinantissima. Ma c’è molto altro.

Nata Ivanova a Kiev nel 1923, figlia unica di genitori legati alla cultura russa, appena adolescente conosce sulla propria pelle gli esiti delle purghe staliniane: nel ‘38 il padre è arrestato, incarcerato e torturato e, sebbene venga rilasciato – caso raro – dopo un anno e mezzo, riporta tali ferite fisiche e morali da non sopravvivere che sei mesi. Un arco di tempo in cui, mentre la madre lavora per mantenerli facendo le pulizie, è lei a curarlo e a condividere con lui il peso di una memoria insostenibile.

Dopo la morte del padre, Svetlana, che non ha mai smesso di tenere accesa la sua passione per lo studio, è spinta dalla madre a coltivare l’apprendimento delle lingue, francese e tedesco, intrapreso privatamente da bambina. Potrà essere questa la sua vera “dote” e forse un giorno la sua salvezza. Intanto la storia incalza.

Il 22 giugno ‘41 è il giorno del suo diploma ma è anche quello in cui i nazisti invadono l’Ucraina, mentre parte della popolazione, provata dalla carestia del ‘32-‘33 (da 5 a 11 milioni di morti), e dalle azioni del regime sovietico che, volendo annientare le correnti nazionaliste, strangola gli snodi ferroviari, li accoglie come liberatori. Nel frattempo un’altra perdita enorme sta per scavare l’anima di Svetlana. Tra i 30000 ebrei deportati e trucidati dai nazisti nel campo di Babij Jar, c’è la sua amica più cara, Neta Tkatsch.

Qualche tempo dopo, sua madre, prostrata dalla fame e dalle privazioni, affitta una stanza a un ufficiale tedesco di nome Kerssenbrock, mentre il suo compito è quello di mediare linguisticamente tra gli occupanti e le persone del luogo, cosa che finisce per procurarle anche un lavoro come traduttrice presso l’Istituto Geologico di Kiev e in seguito presso un ufficio a Dortmund.

Dopo la sconfitta di Stalingrado, i nazisti si avviano a ritirarsi dalla città. Gran parte della popolazione è esiliata, chi rimane è soggetto alle purghe di Stalin. Svetlana e la madre sono internate in un campo di lavoro per deportati dell’Est a Dortmund. Qui la ragazza è interrogata diverse volte dalla Gestapo. In seguito, grazie agli interventi di Kerssenbrock e di un funzionario conosciuto all’Istituto Geologico è rilasciata e parte per Berlino dove, dopo aver affrontato un test, le viene conferita (cosa incredibile per una cittadina sovietica), una borsa di studio della Fondazione Humboldt, mentre un funzionario nazista, che pagherà il gesto con l’epurazione, le procura due passaporti per stranieri per recarsi a Friburgo con la madre. Lì cominciano una nuova vita. Svetlana si sposa acquisendo il nome Geier, diviene madre di due figli, quindi divorzia, nel frattempo ha imboccato un lunghissimo percorso di insegnamento universitario, nonché di fine traghettatrice linguistica della letteratura russa e delle sue infinite sottigliezze etiche e verbali …

Ecco: da questa storia amplissima, dalla sensibilità registica di Vadim Jendreyko e da un apporto emozionante di materiali fotografici e filmici di repertorio, nel 2009 ha origine, dopo una intensa gestazione, il documentario Die Frau mit den 5 Elefanten (The woman with the 5 elephants), dove i pachidermi del titolo, nell’affettuosa denominazione coniata per loro dalla signora Geier, a sorpresa sono i 5 grandi romanzi di Dostoevskij, la cui traduzione porta a termine nell’arco di 20 anni.

Si tratta di un film profondissimo, plurisensoriale, impalpabile e ruvido allo stesso tempo, attraversato, come le luci di un treno nella notte, da una struttura temporale raffinata e complessa, che pure scaturisce dal naturale evolversi degli eventi: a due mesi dall’inizio delle riprese, un incidente grave subito dal figlio di Svetlana (che smette di tradurre per occuparsi di lui), dischiude uno spiraglio nella memoria della donna, generando un flusso di emozioni legate al passato, al padre e all’amica tanto amata, fino a un incredibile viaggio che la riporta, insieme alla nipote, complice un invito per tenere delle lezioni, ancora una volta – dopo 64 anni – in Ucraina. Un tragitto che la camera segue passo passo, con tutto il suo precipitato emotivo gigantesco, mentre il paesaggio dal treno si fa sempre più bianco e rarefatto.

Con una capacità meravigliosa di essere sempre vicinissimo a lei, ma mai invasivo, Jendreyko, in causa anche come narratore storico fuori campo, coglie dunque Svetlana Geier ora nell’intimità dei suoi riti domestici e conviviali (ha tante nipoti), ora intenta al tempio-scrivania dove fioriscono le sue traduzioni: tra i suoi collaboratori uno è un musicista-lettore, a testimonianza della dimensione profondamente auditiva e insieme sensuale della letteratura. E se nell’assoluta continuità tra creazione manuale (cucinare stirare ricamare) e intellettuale, per lei “traduzione” è desiderio, ricerca di qualcosa che emerge dal tutto e che alle successive riletture continua a stillare doni, che cosa è l’esistenza? Col suo corpo agile e curvo, lo sguardo liquido incredibilmente intelligente e arguto, la pelle sottilissima e istoriata, guardando in macchina, Svetlana risponde : “Caro amico, non senti che il rumore della vita altro non è se non un’eco di armonie trascendenti? Che niente esiste se non un cuore che parla a un altro cuore senza parole?”.

Quello che segue è il mio incontro con Vadim Yendreyko al Festival del Film di Locarno 2009, in quell’occasione è avvenuta la prima parte dell’intervista, che ho scelto di lasciare al presente di allora. Nel colloquio datato 2014 lo ritroveremo oggi e sapremo quale treno ha preso nel frattempo la storia di Svetlana Geier.

Come l’hai conosciuta?

4 anni fa stavo lavorando a un progetto cinematografico ispirato all’opera di Dostoevskij e un amico me l’ha segnalata come la massima conoscitrice in materia. Così le ho chiesto di incontrarci.

La nostra prima conversazione è stata infinitamente interessante e ci siamo rivisti ancora. A quel punto quello che stavo cercando è stato gradualmente messo da parte e ho sentito l’impulso di fare un film con lei, un film che raccontasse la sua storia. I nostri incontri mi avevano creato una curiosità assoluta di sapere di più della sua vita, di indagare dove questa donna prendesse l’energia per affrontare le fatiche di Ercole della traduzione. Così dopo quattro mesi le ho proposto il progetto.

Come ha reagito?

Ha detto subito sì, con facilità. Ma poi quando ho iniziato a spiegarle le varie fasi di realizzazione, si è messa a ridere: non riusciva a capire il perché del mio interesse. Comprendeva l’attenzione per il suo lavoro come traduttrice ma non quella verso la sua persona.

Che rapporto ha col cinema? Lo segue?

Va a teatro, ma rarissimamente al cinema. Ciò nonostante, quando le ho mostrato il film ha fatto osservazioni da critica raffinata. Fare un film ha molto in comune con il tradurre. Lei non comprende le questioni tecniche, ma percepisce l’essenza. Quando un film è finito è come un testo, non lo leggi da sinistra a destra in modo consequenziale, lineare, ma secondo un movimento che parte dalla fine. La fine è come una finestra attraverso cui è possibile abbracciarlo tutto e ripercorrerlo a ritroso. Da tempo avevo maturato dentro di me questo pensiero ma non l’avevo mai condiviso con nessuno.

Come siete arrivati alla prima immagine?

Nelle fasi iniziali del progetto avevo bisogno di una sua foto per completare il dossier da sottoporre ai produttori. Ma dopo ogni incontro tornavo a mani vuote. Non ero capace di chiederla veramente e lei, dal canto suo, mi liquidava con un “la prossima volta”. Intanto il tempo passava e i miei colleghi non riuscivano a capire il perché delle mie difficoltà: “Quest’uomo è pazzo, non riesce a fare una foto”. Finché un giorno finalmente sono riuscito a proporle di farne una insieme, tenendo io stesso la macchina (per fortuna ancora non si diceva “selfie” …, ndr). Da quel momento in poi il film è partito. E non le è importato più che la riprendessimo mentre lavorava ai testi o in cucina. Tutto ha cominciato a fluire.

Dal film emerge una grandissima capacità di attesa e di ascolto, di ricezione dei silenzi, delle pause, dei bisbigli, delle minime variazioni del suo stato emotivo. Avevi avuto qualche esperienza di relazione ravvicinata con una persona così anziana, una parente o altro?

Sì, ma non così vicina, e poi ogni rapporto è differente. Quando faccio un film, non è su qualcuno, ma con qualcuno. Allora devo rispettarne il ritmo. Capire quando è possibile bussare alla porta, senza però aprire e aspettando che mi si apra dall’interno. Per fare un film su di te potrei ricoprirti di domande. Ma non è detto che tu mi dica nulla. Forse tra un mese forse tra un anno tu mi aprirai la tua porta. O forse mai. Certo io posso bussare un po’ più forte, ma se sfondo la porta come un ladro non troverò mai i tuoi veri gioielli. I veri gioielli mi arriveranno soltanto attraverso un dono volontario. Nel caso di Svetlana Geier ci sono voluti 8 mesi per approdare a quella prima foto. Solo allora i fiori si sono aperti.

Adesso lei sembra non accettare nulla che non voglia interamente, ma c’è stato un tempo in cui ha dovuto accettare cose orribili che non voleva.

Sì, ha vissuto circostanze storiche in cui non c’era scelta. O solo una scelta minima. Quando gli eventi più duri sono accaduti era davvero molto giovane. Così la sua conoscenza di quanto stesse realmente avvenendo si è sviluppata solo in un secondo tempo. Allora, come lei stessa si è definita, era soltanto “una ragazzina appassionata di lingue”, lontana dalle questioni politiche. Eppure è stato a quel tempo che è stata gettata nel mezzo di circostanze storiche enormi. Stalin, Hitler, la Storia più folle a cui lei ritiene d’essere sopravvissuta proprio grazie alla sua natura naïf. Svetlana non ha avuto paura di nessuno. Nei soldati tedeschi o russi vedeva gli esseri umani, i vecchi e i ragazzi e non le uniformi, con tutto il loro carico simbolico atroce. E non ha mai avuto timore nemmeno delle situazioni più pericolose (come le volte in cui è stata convocata dalla Gestapo). Come accade coi cani, sentiva che se solo avesse mostrato di avere paura, sapeva sarebbe stata perduta.

Infatti, malgrado tutte le cose insostenibili che ha dovuto attraversare è come se avesse una stella che la protegge.

Credo sia così. Le persone che amava sono morte o hanno subito cose orribili. In questa scena mortifera lei pensa a sé come a una sonnambula: si aggira intorno ai corpi di chi non c’è più, e nonostante il dolore immane sopravvive a tutto questo. Ciò che sente è di avere dei debiti, di dover ripagare il fatto di avere avuto una vita così lunga e densa. Per questo, come si dice all’inizio del film, traduce, per restituire alla vita ciò che le ha regalato. La traduzione è stata davvero la sua chiave per sopravvivere all’inimmaginabile.

Il lavoro di traduzione in Italia è spesso in ombra e mal pagato.

È incredibile, se pensiamo che la maggior parte dei libri che leggiamo è opera dei traduttori. In realtà è un lavoro faticosissimo, ma per lo più si crede che si tratti di “copiare” da una lingua all’altra, cosa che è un totale misunderstanding, come lo è il credere che fare un documentario sia “copiare” la realtà. Invece ci sono molte similitudini tra il lavoro documentaristico e quello della traduzione. Novalis diceva che tutta la poesia è traduzione. E a quel tempo il termine “poesia” si usava per intendere l’arte in senso lato. Alla fine credo che tutta l’arte sia traduzione. Penso che questo sia il punto.

Tornando al passato di Svetlana: lei aveva capito perché suo padre era stato arrestato?

Il padre di Svetlana era un ingegnere agrario di un certo successo tanto che il ministero gli aveva regalato una macchina che lui aveva scambiato con una dacia, dal momento che allora a Kiev non esistevano strade dove poter guidare. Non si conoscono le cause del suo arresto: se l’accusa fosse di partecipazione ad attività rivoluzionarie o possesso di armi, comunque nulla che avesse alcun aggancio con la realtà. Credo che Svetlana percepisse l’estraneità di suo padre a quanto gli stava accadendo senza però comprendere il contesto politico che stava dietro il suo arresto.

Parlando del padre, lei si sofferma sul pezzo di carta che ne attesta il rilascio.

Fu un fatto abbastanza straordinario. Chi veniva arrestato non tornava più a casa. Milioni sono stati uccisi e solo un migliaio rilasciati. Infatti non esisteva nemmeno un vero e proprio modulo che certificasse il rilascio e il foglio che lei mostra sembra più un verbale per una multa. Quanto alle cause del rilascio nemmeno quelle sono note. Svetlana mi ha però parlato di un sogno fatto dal padre quando era in prigione, che poi le aveva raccontato nell’ultimo periodo della sua vita.

Si trovava in una stanzetta con un finestra. E nella stanza c’era un uccellino. L’uccellino voleva fuggire via dalla finestra ma non poteva perché in mezzo alla stanza c’era uno steccato fitto e alto che gli impediva di raggiungerla. Così gli si lanciava contro, senza però riuscire a forarlo: insisteva fino a ferirsi, ma non per questo rinunciava. Alla fine, con un ultimo sforzo, si staccava da terra e tutto sanguinante riusciva finalmente ad attraversarlo e a volare via.

Il padre era molto razionale, aveva studiato matematica ed era un grande giocatore di scacchi. Fece questo sogno in carcere una notte in cui, dopo essere stato torturato, aveva deciso di uccidersi. In una cella c’erano fino a 30 40 uomini e molti si uccidevano senza che gli altri facessero nulla per fermarli, anzi rispettandoli nella loro scelta. Così quella notte il padre di Svetlana voleva fare lo stesso, ma poi sfinito si era addormentato e aveva fatto questo sogno così visionario. Qualche giorno dopo era stato rilasciato. Anche la storia dell’orologio è incredibile. Lo aveva dovuto consegnare al momento dell’arresto, ma al rilascio gli era stato restituito perfettamente funzionante. E tutto questo è assurdo per un sistema così feroce. Quell’orologio Svetlana lo porta ancora oggi ed è lo stesso che si vede nel film.

Giungendo al nodo più acuminato di questa storia, sia per chi vede il film, sia, immagino, in primis per chi l’ha fatto: il momento in cui il tracciato di Svetlana Geier incrocia non solo l’occupazione nazista del suo paese, ma anche la conoscenza diretta di alcuni ufficiali nazisti. Allora è inevitabile chiedersi come ciascuno di noi avrebbe agito. Nell’intreccio terribile e filosofico della sua vita, sarà il suo lavoro di traduttrice e di mediazione con alcuni ufficiali nazisti, che le salverà vita, dandole poi la possibilità di espatriare in Germania. C’è un punto incandescente del film, in cui le poni difficilissime ma indispensabili domande circa la sua consapevolezza del tempo, anche innanzi all’eccidio di Babij Iar, dove viene trucidata la sua amica più cara.

Sono momenti di sospensione assoluta, in cui come esseri umani siamo attraversati da domande insostenibili, da correnti algide che ci prostrano lasciandoci con infiniti interrogativi. Dal mio contatto con Svetlana Geier ho potuto capire che la sua relazione con la Germania trascende l’associazione tra la nazione e il nazismo. Lei concepisce la terra tedesca come una grande barca custode di incredibili tesori di cultura, come Schiller, come Goethe, come Thomas Mann. Nel corso della sua storia la barca fu occupata da Hitler e dai nazisti. I suoi tesori caddero nelle mani sbagliate, ma questo non ne muta il valore, né cambia la vera natura della barca che non coincide con l’ideologia nazista.

E nello specifico del rapporto tra Svetlana e Kerssenbrock?

C’è un grandissimo straniamento: con lui, come con altri tedeschi, ha intrattenuto buoni rapporti; alcuni, inspiegabilmente, anche a rischio di gravi conseguenze personali, l’hanno aiutata. Quindi a quel tempo, come dice espressamente, non è avvenuta per lei l’identificazione tra quelle persone e i nazisti, qualcosa che è sopraggiunto dopo. Quanto a Kerssenbrock, una delle prime decisioni prese da Hitler quando salì al potere fu di far sì che i più alti gradi dell’esercito, anziché giurare sulla nazione tedesca, giurassero sulla sua persona. Questo poneva gli ufficiali nella condizione di non poter rompere il giuramento. Romperlo era la fine di tutto e non restava che uccidersi. Svetlana non giustifica Kerssenbrock, ma riflette sui meccanismi psicologici che lo tenevano vincolato, qualcosa di incomprensibile per noi oggi se pensiamo che i politici non fanno che smentire continuamente quanto hanno promesso. Per opporsi Kerssenbrock avrebbe dovuto distruggere tutto il sistema mentale in cui era immerso, cosa che non accadde.

La struttura del film segue un arco di tempo molto ampio, ad abbracciare non solo il passato di Svetlana Geier ma anche la malattia e la morte del figlio. È avvenuta durante la lavorazione del film? Deve essere stato qualcosa di indicibile.

Sì, è stato così. C’è stato un enorme momento di crisi quando suo figlio ha avuto l’incidente. Svetlana andava a trovarlo in ospedale e ha smesso di lavorare. Così non sapevamo più niente, cosa sarebbe accaduto al figlio e se lei sarebbe stata in grado di continuare ancora. Tutto era sospeso, senza più direzione. Allora mi sono detto, basta, questa è la realtà, non resistere, arrenditi a quanto sta accadendo. Suo figlio se ne sta andando, sii parte della cosa e attendi. A quel punto è stata lei a venirci incontro. L’incidente avvenuto al figlio aveva aperto le porte del suo passato e reso possibile una nuova parte del viaggio.

Il figlio somiglia moltissimo al padre di Svetlana.

È qualcosa di sorprendente che abbiamo scoperto insieme. Ci stava raccontando dell’orologio del padre ed è andata al piano di sopra per prendere una sua foto. Allora ci ha detto che se a quindici anni si era trovata nelle condizioni di dover aiutare suo padre senza sapere bene come farlo, adesso a 85 sapeva come aiutare suo figlio. A distanza di settanta anni, la vita l’aveva messa di nuovo nella condizione di fare l’infermiera nei confronti di chi più amava.

In questa storia drammatica c’è un filo di ironia, un brillio che di tanto in tanto fa capolino dagli occhi della signora Geier, specie nei momenti in cui traduce; il suo spirito è più che mai sofisticato e sempre spiazzante.

Fa parte del suo modo di essere, della sua intelligenza, ma anche del suo modo di vivere il lavoro di traduttrice. Lavora per anni a un unico testo, fino a memorizzarlo interamente, fino a che diventa parte della sua stessa vita. Traducendo si scoprono le infinite possibilità delle lingue, come dell’esistenza. Ed è molto affascinante scegliere, scoccare la freccia con la maggiore precisione possibile. C’è spazio per tutto, per la serietà più assoluta e per l’umorismo. È per questo che la cultura rende così ricca la vita.

Alla fine di questo lunga storia di vita e cinema, cosa ti unisce a Dostoevskij.

È stata l’origine della mia ricerca e il motivo per cui ho voluto incontrare Svetlana Geier. In tutti i suoi romanzi Dostoevskijsi pone questa domanda: chi sono? Come è fatta la mia anima? Perché, come dice Svetlana, quando Raskòl’nikov sta per uccidere l’anziana usuraia noi tremiamo con lui, con l’assassino, sperando che riesca nel suo intento?Ricorda anche che la domanda che è attraversa tutta l’opera di Dostoevskij è: il fine può giustificare i mezzi e dunque rendere conto di una vita? Qualcosa che riguarda sia la politica mondiale, chi detiene il potere, sia le singole vite di ognuno. Credo che oggi questa sia una delle domande fondamentali e condivido la risposta di Dostoevskij, che mai, in nessun caso il fine può giustificare i mezzi. Cosa possono fare istituzioni come L’Onu o la Croce Rossa se i primi a non mantenere le promesse, a non rispettare i principi condivisi sono i grandi stessi? E se loro non rispettano queste regole basilari come possono aspettarsi che lo facciano gli altri? È il cattivo esempio, come per i bambini, è la catastrofe di Guantanamo, la credibilità della politica occidentale distrutta. Praticare le pagine di Dostoevskij, le infinite sottigliezze della sua scrittura illuminata, come fa Svetlana Geier, può creare anticorpi, particelle impalpabili di resistenza a tutto questo.

 

Marzo 2014. Quali vie ha seguito il brillio di Svetlana Geier.

Abbiamo continuato a sentirci anche dopo la fine del film. Ha partecipato a una prima al festival Visions du Réel di Nyon e ad altre proiezioni. Poi pian piano, nel 2010, è diventata sempre più debole e ha trascorso gli ultimi due mesi a letto. Se ne è andata la notte tra il 7 e l’8 di novembre. È stata una fine senza sofferenze acute. Come era suo desiderio, è morta nella sua casa, con sua figlia accanto, tra le sue cose, la sua tazza di tè, i suoi libri. Pacificamente.

Cosa credi che avrebbe pensato di quanto sta accadendo in Ucraina?

Non è semplice da dire. Non ho mai parlato specificamente con lei della situazione politica nel suo paese d’origine, anche se so che aveva simpatia per la rivoluzione avvenuta dieci anni fa. Bisogna tener presente che era nata e cresciuta in Ucraina ma che la sua cultura, i suoi genitori erano legati alla Russia, che a casa parlavano russo. D’altra parte, aveva vissuto sulla propria pelle snodi cruciali della storia ucraina del 900, lo stalinismo prima e poi il nazismo e il filo della sua vita era stato profondamente legato ai destini di quel paese. Successivamente gli eventi l’avevano condotta a lasciare l’Ucraina per la Germania, senza tornare se non dopo moltissimi anni. Ecco, quel viaggio, che ho raccontato nel film, dà forse il senso di quanto forte e dolorosa insieme fosse per lei la memoria delle sue radici (sulla tomba del padre chiede alla nipote di portare con sé un rametto della sua terra, per la nonna, ossia per se stessa, quando a sua volta morirà, ndr). Se cerco allora di immaginare cosa avrebbe pensato, credo che probabilmente si sarebbe sentita molto amareggiata del fatto che l’Ucraina sia diventata materia di giochi politici tra Putin e gli interessi Occidentali. Dunque credo che sarebbe molto sospettosa e critica su quanto accade.

E tu cosa ne pensi?

Al momento credo che sia molto difficile giudicare. Mi sembra una situazione eterogenea che vede coinvolti interessi differenti. A quanto so, anche da fonti dirette, in Ucraina al momento ci sono persone molto impegnate, che lottano davvero per la democrazia, ma è vero che ce ne sono anche altre estremamente nazionaliste. Quindi è difficile capire quale direzione possa prendere il paese adesso. Anche l’Ue poi non riesce a interfacciasi con una sola voce, la sua debolezza è data dalle troppe motivazioni particolaristiche al suo interno e in questo stato di cose caotico, Putin ha buon gioco.

La storia di Svetlana Geier lambisce la storia ucraina, quella russa e quella tedesca e la difficoltà a conciliare le diverse componenti …

La situazione degli ex paesi sovietici si può paragonare a quelli della ex Jugoslavia, al covare di conflitti e di contraddizioni storiche antiche che poi a un certo punto sono esplose. È per questo che quello dell’Ucraina, che riflette la complessità dell’Europa, è un lungo processo che non può trovare soluzioni immediate. Svetlana Geier cercava di creare connessioni, di costruire ponti tra culture diverse e questo era grandioso perché lei capiva che le differenze sono un vantaggio, la ricchezza che si genera dallo scambio. Capirsi è una questione di cultura, di pazienza, di attenzione alle sfumature.

maria_grosso_dcl@yahoo.it