Mentre prosegue lo scardinamento dell’Europa voluto da Trump e da Putin, il governo italiano allestisce una manovra di finanza pubblica dove pretenderebbe di celebrare fasti trumpiani: aumento del deficit, chiusura protezionistica, taglio delle tasse.

La Commissione europea, invece di insistere nella polemica sulla insana regola del debito, dovrebbe porre ai nostri governanti la seguente domanda: è di ciò che ha davvero bisogno l’Italia in questo difficilissimo passaggio storico? Forse Di Maio non sa che il taglio fiscale e il condono per il rimpatrio dei capitali di Trump – ma abbiamo già visto che quanto a condoni anche i 5Stelle non guardano molto per il sottile! – è andato a vantaggio degli utili societari, trasferendo 1500 miliardi di dollari dal bilancio federale alle grandi Corporations, facendo aumentare i profitti del 16% nel solo secondo trimestre del 2018 e premiando per un quarto del totale i redditi annui superiori al milione di dollari.

COME ARGOMENTA il bel libro di Francesco Saraceno, La scienza inutile. Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia (LUISS, 2018), oggi bisognerebbe interrogarsi in modo radicalmente innovativo su quali siano le politiche adeguate a rilanciare le economie globali e nazionali, quali strade possano farci uscire dall’incertezza che grava sul nostro futuro, quali siano gli equivalenti del New Deal, degli accordi di Bretton Woods, del pensiero di Keynes, del welfare state, idonei a provocare uno slittamento del potere dalla finanza alla produzione, a trasferire il focus dagli indici azionari all’espansione dell’economia reale, ad accrescere il benessere sociale.

Qui il tema degli investimenti si salda con quello della rinnovata crucialità del lavoro e l’uno e l’altro confluiscono nella problematica del «nuovo modello di sviluppo», un nuovo modello di sviluppo per l’epoca di uno straordinario cambiamento climatico, ecologico, digitale: mentre è importante investire nelle infrastrutture fisiche tradizionali (rinnovate e modernizzate), è vitale espandere i settori nuovi, perché investimenti in protezione ambientale, riqualificazione territoriale, sviluppo e diffusione di energia alternativa, disinquinamento, risparmio di materiali, riciclaggio e altro hanno anche il grande vantaggio di essere creatori di lavoro e proiettati verso il futuro.

PROPRIO LE INNOVAZIONI tecnologiche e la digitalizzazione dell’economia possono favorire la costruzione di paradigmi economici orientati ai bisogni sociali, i beni pubblici, i beni comuni. Al centro debbono tornare le domande sul ruolo del «lavoro» e sui «fini» di un «nuovo modello di sviluppo», gli interrogativi sui meccanismi di acquisizione dei guadagni di produttività, sui modelli contrattuali, sulla regolazione del mercato del lavoro, sulla possibilità di fare ricorso a «minimi» e «massimi» retributivi.

INVECE DI INDULGERE in misure che intervengono a compensare solo ex post – come il mix riduzione delle tasse/«reddito di cittadinanza» (presunto) – occorrerebbero, dunque, politiche «strutturali» in grado di agire ex ante sui meccanismi di accumulazione e di produzione e in questo ambito dare vita a una nuova riflessione sulla stessa concezione del lavoro, sul rapporto capitale/lavoro, sulla democrazia economica. L’evoluzione tecnologica in atto ha due facce: da una parte l’estrazione di masse enormi di dati e di informazioni dagli individui e la loro mercificazione e trasformazione in profitti per Google, Facebook e le altre corporations, il diffondersi di una sorta di «pornografia emotiva» nell’estensione della logica prestazionale e della partecipazione gratuita all’accumulazione di profitti e di potere altrui, l’esposizione costante del sé e una «gamificazione» in cui l’offerta ininterrotta di stimoli si traduce in «forme di gioco» (espresse dal «mi piace») che alla fine si risolvono in esasperazione della prestazione e della competizione.

Dall’altra parte la non inevitabilità della trasformazione di ogni elemento di conoscenza in informazione e dell’ambizione a modificare gli stessi comportamenti manipolando e suggerendo desideri che non si sa di avere, se soprattutto si diventa capaci di sottoporre a critica sia la «razionalità politica» dell’innovazione, sia la sua «razionalità scientifica», in particolare la «razionalità dell’algoritmo» con la sua pretesa di corrispondere a una naturalizzazione oggettiva volta a trasformare tutti i fenomeni in stati di necessità chiusi allo spazio dell’alternativa.

IN QUESTO AMBITO ricadono le problematiche della democrazia economica e di iniziative innovative sui «diritti di proprietà», del tutto ignorate da Lega e 5Stelle. Il paradosso dell’economia della conoscenza – secondo cui essa, invece che favorire le attività diffuse e le piccole imprese che ne sarebbero le naturali destinatarie, premia le grandi imprese monopolistiche – si deve alla natura di «bene non-rivale» della conoscenza stessa che può essere reso disponibile sia come un bene pubblico sia come una merce, il che implica che quando essa non sia disponibile come bene pubblico, vi è sempre uno spreco di suoi ulteriori potenziali utilizzi che non avrebbero comportato alcun costo aggiuntivo e lo spreco si risolve in minori investimenti, minore produzione (immateriale), minore produttività, minore sviluppo.

VA COLTO, QUINDI, un contributo stagnazionistico nel comportamento del «capitalismo dei monopoli intellettuali» che, essendosi appropriati dei benefici dell’economia della conoscenza privatizzandoli e trasformandoli in rendite monopolistiche, esercitano effetti depressivi sugli investimenti, la crescita, la distribuzione del reddito. Ma le nuove tecnologie racchiudono forti istanze cooperative, nella direzione della creazione di sistemi produttivi in grado di autoprogettarsi e autoregolarsi, aprenti eccezionali «finestre di opportunità» che, anziché lasciate al solo capitalismo animato dalla volontà di consolidare i tradizionali rapporti di potere, possono essere utilizzati da lavoratori intenzionati alla «coprogettazione» in disegni alternativi. La dose massiccia di «interconnettività» dell’innovazione odierna è intrecciata a una dose maggiore di «cognitività» e tale intreccio, poiché dà un ruolo potente al lavoro mentre genera una maggiore diffusione e circolazione delle informazioni, entra in contraddizione con una gestione accentrata delle aziende. In questo crocevia di sfide si annidano rischi ma anche opportunità che solo uno spirito politico altamente progettuale potrà cogliere.