Economia

La sfida infinita per l’economia pubblica europea

Il dibattito europeo sul Patto di Stabilità e Crescita, comincia a muovere i primi passi. Ieri si sono riuniti i ministri dell’economia europei con all’ordine del giorno le politiche della […]

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 9 luglio 2014

Il dibattito europeo sul Patto di Stabilità e Crescita, comincia a muovere i primi passi. Ieri si sono riuniti i ministri dell’economia europei con all’ordine del giorno le politiche della crescita, ma nei limiti dei trattati. Dunque si pensa a qualche flessibilità nel percorso di rientro dal deficit e dal debito in cambio di riforme strutturali e allo scorporo dal calcolo del deficit delle spese relative al cofinanziamento degli stati per i fondi strutturali. Per l’Italia si tratta di 80 mld di euro. All’orizzonte s’intravvede anche la possibilità di rafforzare le obbligazioni a progetto (eurobond) di cui Juncker è stato un sostenitore. Nel dibattito cominciano ad affacciarsi posizioni più europeiste. Roberto Gualtieri, presidente della Commissione Affari Economici del Parlamento europeo, ha suggerito la necessità di creare un bilancio proprio per la zona euro che potrebbe creare le condizioni per una politica economica pubblica europea. Anche Kenneth Rogoff, finora molto sensibile alle esigenze di risanamento dei conti pubblici, sottolinea la necessità di prefigurare una politica economica europea bloccata da un ritardo politico che pregiudica l’uscita dalla crisi, mentre la Bce di Draghi più di tanto non può fare: «La Bce si troverà presto a fare i conti con il fatto che riforme strutturali e rigore di bilancio sono una soluzione tutt’altro che esaustiva per i problemi di indebitamento dell’Europa», mentre i recenti stimoli, la garanzia espansiva introdotta dalla Bce, possono al massimo «contribuire a finanziare stimoli a breve termine».

Secondo Rogoff è «difficile immaginare che i Paesi europei possano evitare all’infinito di fare ricorso a tutti gli strumenti per combattere il debito…». Le misure proposte sono quelle classiche: «rinegoziazione del debito, inflazione e varie forme di tassazione della ricchezza» (Il sole 24 ore, 9 luglio 2014). La presidenza italiana potrebbe offrire un contributo originale se uscisse dalla logica dei decimali e dalla flessibilità di bilancio (contrattata) subordinata alle riforme strutturali e richiamasse l’attenzione sulla «stupidità» dei trattati. Associare la riforma del Senato e delle Province alla flessibilità di bilancio dà conto dell’insufficienza del governo. Nel panorama italiano si è inserita la proposta di referendum per abolire la rigorosa applicazione del Fiscal compact decisa improvvidamente. I referendum, indipendentemente dalla loro ammissibilità costituzionale niente affatto certa, potrebbero diventare un’utile occasione di dibattito sulla politica economica comunitaria e sulla necessaria cessione di sovranità.
Si tratta di istituire i princìpi, le norme e le regole dell’economia pubblica europea, cioè definire l’insieme delle politiche di bilancio comunitarie con le quali indirizzare il sistema economico europeo verso obiettivi democraticamente definiti. Sono principi coerenti con una politica economica europea che attualmente non esiste. L’Europa, infatti, non possiede un bilancio autonomo e finanziato con entrate fiscali legate ad un’ampia base imponibile. Occorrerebbe uscire dalla logica angusta dell’eventuale flessibilizzazione dei bilanci statali nei limiti dei trattati per imboccare la strada di una politica economica europea fondata su un bilancio finanziato da entrate autonome, eliminando i vincoli del potere discrezionale dei trasferimenti statali.
Se la crisi è strutturale, occorre creare istituzioni adeguate per tenere in equilibrio la domanda effettiva, riducendo il mancato impiego delle risorse produttive a cominciare dalla disoccupazione. Per uscire dalla crisi, l’attenzione non dovrebbe concentrarsi sulla flessibilità di spesa degli stati che non attenua il rischio di lasciare intatte le divergenze di struttura tra i paesi. È necessario pensare ad un bilancio europeo molto più consistente, ad esempio del 5% del Pil, finanziato con strumenti come l’Iva e una tassa sulle transazioni finanziarie, e l’emissione di bond acquistati dalla Bce per sostenere la crescita e gli investimenti necessari per Europa 2020. Si avvierebbe una programmazione europea sganciata dalla logica intergovernativa, valorizzando il ruolo del parlamento (immaginate una finanziaria europea di un trilione di euro da discutere ogni anno, altro che la nostra legge di stabilità).
Spostare il dibattito europeo su questo piano eviterebbe di lasciarlo impantanato nell’improbabile interpretazione di cosa siano la «austerità espansiva» o la «flessibilità rigorosa».

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