Il clavicembalo non gli piaceva per niente. Una insofferenza pari a quella per il vibrafono («melenso») ma con motivazione diversa: «Mi ricorda una macchina per cucire». Eppure nell’anno 1967 John Cage si mise all’opera con l’obiettivo di elaborare un brano «mostruoso» al cui centro dovevano esserci ben sette clavicembali. Che cosa era successo? Come aveva rotto gli indugi che gli avevano fatto rimandare una risposta all’invito della clavicembalista svizzera Antoinette Vischer di scrivere, appunto, un pezzo per il suo strumento? Mica un invito platonico: si trattava di una commissione pagata, simile a quelle che la concertista aveva assegnato o avrebbe assegnato in futuro a compositori come Luciano Berio, Earle Brown, Hans Werner Henze, Duke Ellington. Ma Cage nicchiava. Dando poco ascolto a un’altra clavicembalista, Sylvia Marlowe, americana, pure lei smaniosa di avere un regalo musicale dal compositore compagno d’arte e d’amore del divo della danza Merce Cunningham.

L’agente segreto che fece decidere Cage per il sì si chiamava computer. Sulla carta c’entrava poco col clavicembalo, che questo strumento fosse usato per matematiche/delicate Fughe o Partite sei-settecentesche o per meccaniche/inquiete indagini come quella che il novecentesco György Ligeti, proprio nello stesso periodo, stava completando con la scrittura del clavicembalistico Continuum (1968). Sulla carta. In pratica era tutto da vedere. Intanto bisogna precisare che il sì Cage non lo disse ad Antoinette, o meglio non solo a lei: lo disse a Lejaren Hiller, direttore del Dipartimento di Computer Music all’Università dell’Illinois e compositore a sua volta. Gli disse che era interessato a sfornare una composizione impiegando il computer e gli chiese la sua consulenza. Hiller lo convocò per un anno alla sua università e Cage si mise al lavoro insieme a lui.

Ma già prima di cominciare Cage aveva avuto un’idea luminosa: perché non mettere assieme il progetto di un’opera ambiziosa fatta al computer con la soddisfazione della richiesta di una brava concertista, Antoinette Vischer? Cage era anarchico e situazionista ma non per questo mancava di spirito imprenditoriale. Era anche un’anima gentile. Arrivò a Urbana-Champaign, Illinois, all’Università, con in tasca il piano di HPSCHD, titolo che altro non era che la contrazione della parola harpsichord, clavicembalo. Nei giorni, mentre esplorava le risorse del computer che Hiller gli metteva a disposizione, aiutandolo, anzi distillando idee compositive in tandem con lui e regalandogli l’assistenza dei tecnici suoi collaboratori al Dipartimento, si accorse che i suoni sintetici, artificiali, che faceva sprigionare da quella macchina potevano congiungersi efficacemente, dialogare, assimilarsi, soprattutto sovrapporsi in maniera stimolante ai suoni destinati al clavicembalo ma prodotti col computer stesso.

Ed ecco prendere forma un’opera spettacolare e folle. La stessa che Xing/Live Arts Week, il cenacolo bolognese di arti visive/sonore/performative, farà rivivere il 21 aprile dalle nove di sera a mezzanotte e oltre in una sala della galleria MAMbo della capitale emiliana. Cage e Hiller – in duo fino a un certo punto, difficile stabilire un ordine inventivo gerarchico, ma è accettato comunemente che la firma effettiva finisse per essere quella di Cage e che lui avesse voluto associare quella del compagno e guida – elaborarono sette parti musicali per altrettanti clavicembali e 51 nastri magnetici di suoni artificiali. I brani per i clavicembali erano ricavati (con modifiche varie), tranne uno, il primo, da battute di opere di Mozart. In uno degli assoli per clavicembalo apparivano battute di altri compositori: Beethoven, Chopin, Schumann, Gottschalk, Busoni, Cage (da Winter music), Hiller.

La scelta delle battute di Mozart e degli altri compositori, e delle loro modifiche, era affidata al caso, o meglio, al metodo dell’I-Ching (usato da Cage per la prima volta per Music of change nel 1951) e al metodo di Mozart del «gioco dei dadi», Musikalisches Würfelspiel, assai apprezzato da Cage. La stessa cosa avveniva per quanto riguarda la scelta dei suoni e lo svolgimento dei brani dei nastri magnetici. Tutto veniva assemblato da un software programmato per operare, appunto, scelte e modifiche casuali. Le parti dei clavicembali e quelle dei nastri magnetici avevano una durata di venti minuti e potevano, anzi dovevano nelle intenzioni di Cage e Hiller, essere ripetute, sovrapposte, accostate per un tempo indefinito. L’obiettivo era una musica che avesse l’effetto della moltiplicazione degli episodi e nello stesso tempo contenesse la reiterazione di quegli episodi. Ripetizione abbinata all’espansione senza limiti.

«Alla fine non si sentiva distintamente nulla», racconta Philip Corner, ottantenne compositore americano da anni residente a Reggio Emilia (un suo lavoro entusiasmante, I’deal Orchestra, è stato presentato in prima assoluta nel settembre 2012 a Bologna nell’esecuzione dell’Orchestra del Comunale diretta da Tonino Battista). «Nulla delle varie componenti dell’opera, in particolare delle battute riprese da Mozart e dagli altri compositori. Un caos totale, il suono dell’assieme era fitto e denso e prodotto con criterio stocastico, diciamo col calcolo delle probabilità. Statisticamente il flusso sonoro cambiava di rado e ciò permetteva al pubblico di andare e venire». Ovviamente era proprio questo che gli autori si proponevano di ottenere.

Corner – nell’équipe di clavicembalisti che suonerà HPSCHD all’imminente Live Arts Week IV bolognese – non è un testimone qualsiasi: era uno dei sette clavicembalisti convocati da Cage per la prima mondiale dell’opera la sera del 16 maggio 1969 alla Assembly Hall dell’Università dell’Illinois. Tra gli altri alla tastiera dell’antico/moderno strumento si trovavano David Tudor, il grande solista (pianista, per la verità) che ha accompagnato Cage in tante imprese della sua carriera, e – guarda guarda! – Antoinette Vischer, la committente-interprete. L’evento durò cinque ore circa davanti a 7.000 fruitori. Ma quello che non si è ancora detto è che l’opera era diventata multimediale. Non è chiaro se Cage e Hiller l’avessero pensata così fin dall’inizio, sta di fatto che il gigantesco apparato sonoro era immerso o avvolto, insomma in rapporto comunicativo-espressivo strettissimo e assai significativo, in una gran massa di immagini e film proiettate su uno schermo circolare che occupava i lati di tutta la sala. E il gruppo di artisti visivi, videomaker, grafici implicati nello spettacolo/performance/happening aveva adottato gli stessi criteri di casualità dei compositori per elaborare e poi montare i propri lavori.

Il fattore multimediale sarà esaltato nella messa in scena di Live Arts Week IV. Ben diciannove videoartisti di tutto il mondo saranno della partita e, una volta conclusa la rappresentazione di HPSCHD, i loro lavori rimarranno in mostra al MAMbo. E i clavicembalisti? Questa volta saranno cinque e si alterneranno su tre strumenti (le versioni «alleggerite» dell’opera furono previste da subito, chiaro che tutte le parti originali, strumentali e digitali, a Bologna saranno eseguite). Sono Philip Corner, Luciano Chessa, Anthony Pateras, Salvatore Panu e Marco Dalpane. Dice Dalpane, tastierista e compositore di gran pregio, votato alla sperimentazione sul fronte di una musica anti-cerebrale che cattura elementi della cultura di massa: «HPSCHD è un lavoro anomalo per Cage, è quello dove ha tentato di mettere in atto la sua idea anarchica di caos attraverso la moltiplicazione supercaotica delle fonti di suono. A me tocca la parte di clavicembalo più complessa, credo, frutto di una scrittura volutamente forzata, più che altro dimostrativa, ogni nota è preceduta da un’alterazione, abbondano i bequadri».

A Corner, invece, in occasione della prima del 1969, toccò la parte «libera» tra le sette per clavicembalo. Il solista può suonare qualsiasi composizione di Mozart o riprendere le parti dei suoi colleghi alla tastiera, e può adottare i criteri di successione e di dinamica che preferisce in un dato momento. «Proprio in quei giorni stavo lavorando sul Concerto in do minore di Mozart», racconta. «Estrapolai sei misure di quel Concerto, le suonai dapprima lentamente, poi sempre più velocemente procedendo verso la fine delle sei misure. Il brano che suonai io era l’unico in cui l’autore classico era riconoscibile, tutti gli altri erano un reticolo di suoni in cui di mozartiano non si sentiva nulla. Ero affascinato dall’idea di collaborare a una grande opera di Cage». Ora la palla passa ai protagonisti di Live Arts Week IV. Magnifica sfida. Forse infernale.