Al di là della presenza di partiti e candidati dell’islam radicale, elementi più che altro di disturbo, la partita pachistana si gioca tra tre organizzazioni storiche del panorama politico e con tre candidati che rappresentano altrettante dinastie.

La più antica è il Partito popolare pachistano (Pakistan Peoples Party, Ppp) guidato da Bilawal Bhutto Zardari, classe 1988, figlio dell’ex presidente Zardari – e soprattutto della scomparsa ex premier Benazir – e nipote di Ali Bhutto, leader socialdemocratico impiccato dal dittatore militare Zia ul-Haq.

Il suo feudo elettorale è la provincia agricola del Sindh, ma raccoglierà voti anche altrove. Non abbastanza, dicono gli osservatori, per contrastare la vera sfida: quella tra la Lega musulmana (Pakistan Muslim League-Nawaz, Pml-N) e la tradizionale opposizione del partito capeggiato dall’ex giocatore di cricket Imran Khan (Pakistan Tehreek-e-Insaf, Pti), che si presenta e autopresenta come il favorito alla carica di premier.

La speranza di ottenere abbastanza seggi per formare il governo non è in realtà affatto scontata per Imran, personaggio istrionico e roboante che sta sfruttando con abilità la tempesta che si è abbattuta sulla Lega, rimasta priva alla vigilia del voto sia del suo leader sia dell’uomo che è stato – senza concluderlo – a capo dell’ultimo mandato sancito dalla vittoria elettorale del 2013.

Nawaz Sharif, premier a più riprese a capo di un partito di centrodestra, è stato infatti destituito dalla carica di premier dopo lo scandalo dei cosiddetti Panama Papers, che hanno rivelato maneggi di denaro in conti esteri e proprietà immobiliari a Londra non dichiarate.

Accuse che gli sono costate 10 anni (più sette alla figlia Maryam): arrestato al suo ritorno in patria, per tentare di rivitalizzare un’immagine distrutta dai guai giudiziari e che stava costando cara al partito, vedrà la battaglia elettorale dalla tv della sua cella.

Nawaz, che ha respinto al mittente le accuse con insinuazioni di complotti militari dietro le quinte, riuscirà probabilmente a non scontare tutta la pena ma, a questo punto, è stato gioco forza puntare su un altro cavallo, chiaramente della scuderia.

Suo fratello Shehbaz Sharif è un buon cavallo soprattutto in Punjab, provincia che raccoglie oltre la metà dei 272 seggi riservati ai maschi (che «trascinano» il voto ai candidati donna) in palio a livello nazionale.

Del Punjab, la zona più ricca e popolata del Paese dove gli Sharif sono dei rais, Shahbaz è stato chief minister, guadagnandosi la fama di abile amministratore. Inutile dire che aveva un appoggio forte nel governo del fratello. Ma la Lega, come ogni altro partito e se non vuole formare un governo di coalizione, deve portare a casa almeno 137 seggi il che non è affatto scontato per un’organizzazione che ha visto un’emorragia di quadri, molti passati al Pti.

Imran se la sta giocando da favorito ma sapendo bene che dalla sua roccaforte del Khyber Pakhtunkhwa muovere alla conquista delle altre province non è facile. In casa gli gioca contro anche la rinascita della Muttahida Majlis–e–Amal, coalizione di partiti islamisti di destra che ha già governato sia nel Khyber sia in Belucistan.

Di Imran si è detto molto, persino che fosse sponsorizzato dai militari che, stando a quanto si racconta nei circoli della Lega, avrebbero deciso di cambiare cavallo sciftando dalla destra degli Sharif verso un partito «nuovo» e paladino di legalità e buon governo ma che scarseggia di esperienza.

C’è chi sostiene che alla fine, la potente macchina militare abbia preferito puntare ancora una volta sulla Lega e sulla dinastia che, nel tempo, si è dimostrata più solida. Senza scossoni che possano turbare gli equilibri dentro e fuori dal Paese.