La moda di questi anni, non ancora definita nella sua espressione di questo secolo e con la volontà di non essere più imprigionata nelle vicende del secolo scorso, si sente stretta in un passaggio angusto tra «l’arcaico e il moderno, l’attuale e l’intempestivo» dei nostri tempi. E per questo cerca una propria espressione contemporanea che la risollevi dalle troppe incongruenze che, è il caso di dirlo, le hanno cucito addosso i critici della cultura ufficiale e gli acritici devoti dell’era digitale. È una parte della moda che non richiede di essere legittimata e che, per questo, si interroga sulla propria funzione e sul proprio ruolo.

In questo dibattito di attualità si inserisce la mostra No Longer/Not Yet, fino al 16 dicembre al Minsheng Art Museum di Shanghai, curata da Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, e da Katie Grand, direttrice del periodico inglese di moda Love, con le opere di sette artisti della scena contemporanea occidentale e cinese come Rachel Feinstein, Nigel Shafran, Unskilled Worker, Glen Luchford, Li Shurui, Cao Fei e Jenny Holzer. Il titolo della mostra, voluto da Michele, che in italiano suona Non più, non ancora arriva direttamente dal titolo che filosofo italiano Giorgio Agamben ha dato a un’ormai mitica lezione alla Facoltà di Architettura dello Iuav di Venezia, Che cos’è il contemporaneo?, raccolta poi in un volume dallo stesso titolo edito da Nottetempo (2008).

Non una mostra di moda, dove gli abiti prendono il sopravvento sul significato, ma una riflessione sul nostro tempo e sul tempo della moda che si propone di creare un cortocircuito fra il pensiero, le emozioni e due espressioni creative – arte e moda – che proprio negli ultimi anni si sono evitate, dimenticando un dialogo fondamentale per la loro storia. Nella mostra, come nel suo titolo che il direttore creativo di Gucci ha scelto come linea guida del suo progetto creativo, si legge quindi l’urgenza della moda di ristabilire un contatto dialogante con l’arte e con il pensiero, quasi che fosse consapevole che a lavorare da sola disperde energie e ci rimette nella considerazione intellettuale. Anche se oggi la moda sa di essere, in molte sue espressioni, più radicale di tanta arte contemporanea.

In un passaggio fondamentale della sua lezione, Agamben usa questa definizione: «È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo».
Il contemporaneo, quindi, non è né avanti né indietro al proprio tempo ma vi aderisce attraverso «una sfasatura». La potenza della definizione di Agamben sembra essere la job description del designer di moda, ma è anche il punto di partenza di Michele per la selezione delle opere esposte.

Così, Rachel Feinstein scompone il tempo in una scultura antropomorfa che chiama Mr Time; Jenny Holzer manda in otto ore di loop di luci Led i suoi aforismi crudeli perché reali («L’amore romantico è stato inventato per manipolare le donne», «L’abuso di potere non è una sorpresa»); Unskilled Worker, al secolo Helen Downie, fissa lo stesso sguardo, innocente e meravigliato, in una infinita successione di ritratti di uomini e donne; Cao Fei invade la sua installazione con robottini aspirapolvere come antidoto alla polvere che ricopre tutto, perfino la mente. Anche Alessandro Michele raccoglie il suo significato di contemporaneo in una sua opera: installa un ritratto di un pre-adolescente di sesso indefinibile dipinto da uno sconosciuto pittore inglese di epoca elisabettiana che regge tra le mani un breviario che sembra uno smartphone, lo circonda in un’aureola di neon colorati, e lo rinchiude in un cubo di specchio dentro una sala di specchi.

La mostra, quindi, non mette a confronto arte e moda ma racconta quel cortocircuito che, secondo Agamben, forma il contemporaneo. In una tensione verso il nuovo che non appaga la ricerca, ma senza il quale la moda muore e il contemporaneo non si forma.