Nel 2001 il prestigioso premio letterario Mishima Yukio viene assegnato a Eureka di Shinji Aoyama, regista giapponese da poco scomparso, che scrive il romanzo a partire dall’omonimo film da lui stesso diretto un anno prima. Hirokazu Kore’eda con Un affare di famiglia, Iwai Shunji con Hana & Alice e altri lavori, Shion Sono con Suicide Club e Love Exposure, Miwa Nishikawa con Sway, ma anche, per toccare l’animazione, Mamoru Oshii con Garm Wars e Patlabor 2 e Makoto Shinkai con Your Name, sono altri registi dell’arcipelago che spesso mettono su carta le storie dei loro lungometraggi, o adattano le proprie storie per il grande schermo.

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UN RISPLENDENTE esempio di questo fluire fra cinema e letteratura è rappresentato da Rokugatsu no hebi (Un serpente di giugno) di Shin’ya Tsukamoto, che dopo aver diretto nel 2002 quello che ancora oggi resta uno dei suoi lavori migliori, l’anno successivo decide di trasporre la storia erotica di perversione e di liberazione dei suoi protagonisti in forma di romanzo. Un serpente di giugno è uscito da poco nel nostro paese per le Edizioni Marsilio per la traduzione dal giapponese da Francesco Vitucci.
In una metropoli giapponese durante la stagione delle piogge, in giugno, Rinko, una donna che offre supporto psicologico attraverso una hot line, conduce un’esistenza inappagata, inchiodata a una vita senza sesso con il marito Shigehiko, molto più vecchio di lei e ossessionato dalla pulizia domestica. La loro routine quotidiana è sconvolta quando alla donna viene recapitata una busta con delle foto che la ritraggono in momenti di autoerotismo e comincia a ricevere delle chiamate da un uomo che aiutò telefonicamente tempo addietro.
La narrazione si sviluppa attraverso i racconti dei tre personaggi che raccontano le vicende dal loro punto di vista, storie di individui le cui vite, in un modo o nell’altro, vengono scosse e deragliate dal loro corso dalla malattia e dalla morte sempre all’orizzonte.

Shinya Tsukamoto
Essere un filmmaker per me implica un «tutto», significa disegnare immagini, filmare, non è solamente dirigere le persone

L’INTRICO di malattia, morte e sessualità che sboccia improvvisa come un fiore di carne, o come le ortensie blu che popolano il libro, innesca un processo di autodistruzione e di svelamento che fa scoprire il proprio lato nascosto e quello più autentico a ognuno dei tre.
Chi conosce i lavori del regista giapponese non rimarrà deluso: la perversione delle storie, il livello di complessità con cui sesso, voyerismo e desiderio sono intrecciati è magistrale, permettendo a Tsukamoto di scavare all’interno dei tre protagonisti, con una speciale attenzione verso la figura della donna, la vera protagonista del racconto. Questo processo di scavo nell’individualità di Rinko è reso possibile nel contesto narrativo dell’apparato fotografico, gli scatti del misterioso uomo infatti, catturano e portano alla luce la verità della carne, i momenti in cui il corpo di Rinko si ribella alla persona che lei ha costruito e in cui si è rinchiusa attraverso il matrimonio e il lavoro.

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SE NEL FILM questo è reso esplicito attraverso il linguaggio visuale, il montaggio e un filtro blu che copre tutto come una patina, nel libro ciò è possibile grazie alla scrittura, molto ritmata e a tratti poetica, con cui Tsukamoto modella l’atmosfera del mondo in cui i tre disperati si muovono. Il mondo creato dall’autore nipponico, tanto nel film quanto nel romanzo, è impregnato dal senso di oppressione creato dalle piogge e dall’umidità soffocante dell’estate giapponese. L’acqua che penetra ovunque è per Shigehiko, il marito, la causa dei suoi miasmi e della sua fobia per lo sporco, che in una scena da vertigine quasi ballardiana arriva a identificare con il suo corpo grassoccio e calvo, mentre è per Rinko il solvente alchemico che la emancipa, distruggendola, dalla sua vecchia persona, liberando il «serpente» del titolo e trasformandola in qualcosa di nuovo.