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La selezione naturale nell’università

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Intervento Per gli ideologi neoliberisti, meritocrazia coincide con la competizione tra docenti. Anche se a giudicare sono gli stessi che competono. Con buona pace della necessaria promozione del talento e della creatività, che non emergono in un regime del libero mercato

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 12 marzo 2015

Cantava Giorgio Gaber in Destra-Sinistra: «È evidente che la gente è poco seria/ quando parla di sinistra o destra/ Una bella minestrina è di destra il minestrone è sempre di sinistra». Insomma, secondo il compianto artista milanese, vi è in tutti noi una comica e irrefrenabile esigenza di assegnare ad ogni nostra azione – pure a quelle ideologicamente più neutre – una valenza politica ben definita, che le impregni di significato e ne esalti quindi la dimensione morale.

Talvolta, però, si assiste ad una confusione, sia terminologica sia sostanziale, tra fenomeni e meccanismi che vengono erroneamente ricondotti, a seconda dei casi, a matrici politiche di destra (da intendere come inclinazione favorevole al libero mercato) o di sinistra (tendenzialmente statalista), mentre spesso è vero il contrario.

Un problema di produttività

Questo spesso accade, ad esempio, quando si disegna l’assetto ideale del sistema educativo, in particolare quello universitario, che si vorrebbe promuovere. Tante persone che si identificano, senza incertezze, nella tradizione liberista – e che quindi confidano nelle virtù del mercato di allocare le risorse in maniera più efficiente della pianificazione centralizzata – da anni sono impegnate in una strenua battaglia politica e culturale affinché pure la selezione del corpo docente e le condizioni economiche ad esso offerte avvengano sulla base di criteri meritocratici, liberati dal gioco delle baronie, dell’auto-cooptazione e del nepotismo, fenomeni purtroppo frequenti in Italia. La promozione della meritocrazia, secondo tali voci, sarebbe resa possibile per mezzo dell’introduzione di una certa tensione concorrenziale fra docenti, ossia lasciando operare il mercato il quale, premiando la produttività scientifica, agirebbe quale efficiente criterio di selezione dei quadri universitari.

Il riferimento continuo e martellante al termine «meritocrazia» quale sinonimo di ordine gerarchico promosso spontaneamente dal libero mercato – e che, secondo i suoi sostenitori, garantisce l’efficienza allocativa – è tuttavia inquinato da una serie di ambiguità di ordine sia semantico sia logico che possono contraddire la stessa fede liberista di coloro che la professano.

Come scriveva Friedrich Hayek – la cui ideologia liberista difficilmente può essere messa in dubbio – il mercato, in virtù della pulsione al profitto degli imprenditori, indirizza gli sforzi produttivi in funzione dei bisogni e dei desideri dei consumatori, cui spetta il giudizio finale e insindacabile sul valore dei beni. In altre parole, sostiene sempre Hayek, il mercato «premia il servizio e non il merito». In accordo col postulato dell’anonimato delle relazioni economiche, le qualità morali e intellettuali delle persone e la loro capacità di affrontare le difficoltà – quello che comunemente si intende per merito – non influiscono sul valore monetario dei beni. Se un prodotto ci soddisfa, non ci interessa se chi ce lo vende lo ha realizzato con grandi sacrifici e in condizioni difficili superate coraggiosamente oppure se è un figlio di papà che ha ricevuto la pappa in bocca senza fare nulla.

Il «Grande dizionario della lingua italiana», sotto la voce «merito», non lascia in tal senso nessun spazio all’ambiguità: «Condizione di chi è degno o ha diritto o può aspirare a un doveroso riconoscimento, a una lode, a un onore, alla fiducia altrui o, anche, a una ricompensa; atteggiamento di riconoscenza e di riconoscimento dovuto o tributato a chi ne è degno o ne ha diritto per le doti, per le virtù, per le capacità, per il prestigio, per il comportamento, per le opere, per le azioni encomiabili». E aggiunge che il riconoscimento «viene tributato ufficialmente con il conferimento di una decorazione o con la concessione di un’onorificenza». Insomma, il merito appare un criterio valutativo opposto frontalmente a quello del mercato: il primo si riferisce a qualità umane (ricompensate per mezzo dell’attribuzione di onori), mentre il secondo ai servizi resi (la cui valutazione si riflette nei prezzi).

Risulta dunque chiaro come il desiderio, peraltro condivisibile, di promuovere la meritocrazia nel sistema universitario rifletta piuttosto un’inclinazione ideologica statalista che non guarda al libero mercato come alla panacea di tutti i mali. Se la valutazione di un docente deve basarsi principalmente sul numero e sulla qualità delle sue pubblicazioni, ciò chiama in causa un giudizio di merito, che prescinde dalla capacità dei lavori scientifici di soddisfare bisogni concreti del pubblico. Un eccellente saggio sulla tragedia greca non va necessariamente incontro ai gusti dei consumatori. Se fosse così, si assisterebbe alla formazione di prezzi monetari e non sarebbe necessario delegare i giudizi dei contributi scientifici a referees estranei, si spera, a pragmatici calcoli utilitaristici e appartenenti alla stessa comunità scientifica (e non a quella ben più vasta dei consumatori).

Frustrazioni intellettuali

Robert Nozick, pensatore non meno liberista di Hayek, in Puzzles socratici depreca come gran parte degli intellettuali nutra un’avversione per il mercato e manifesti invece delle spiccate simpatie per alternative più autoritarie. Il motivo, per Nozick, risiede nel fatto che le doti intellettuali – tanto celebrate dall’istituzione scolastica, i cui criteri valutativi poggiano principalmente sul merito – non vengono in seguito sempre altrettanto valorizzate dal mercato, più sensibile ad altre offerte, con la prospettiva per gli intellettuali di una «mobilità verso il basso». Questo suscita, secondo il filosofo americano, un senso di frustrazione che si traduce nel vagheggiamento di un’alternativa in cui le qualità intellettuali siano riconosciute, ossia di un sistema che possa riprodurre «la scuola in grande». E cos’è, conclude Nozick, tale alternativa se non un sistema centralizzato e autoritario, il quale rifiuta o ignora la gerarchia precaria e volatile tipica del mercato per sostituirla con una più stabile, basata sul merito e decretata dall’alto? Nel mercato non c’è un preside che, come un leader autoritario, dia una medaglia al bravo studente, ricercatore o lavoratore.

Respingendo le conclusioni faziose dell’analisi di Nozick – che intravede nella meritocrazia l’anticamera del totalitarismo – ci sembra invece giusto, doveroso e urgente condividere le idee di chi auspica un’università più aperta, capace e adatta a valorizzare il talento intellettuale e a incoraggiare l’attitudine creativa. Ma questo richiede una presa di distanza da ogni pretestuosa logica di mercato, il quale – per sua natura e come concordano i suoi sostenitori – al posto del merito asseconda piuttosto la volubilità discrezionale dei gusti del pubblico e promuove quindi valori soggettivi anziché oggettivi. Gaber direbbe che la meritocrazia è di sinistra.

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