Oggi come promesso Thierry Frémaux annuncerà la sua selezione del «festival che non c’è», ovvero l’edizione 2020 del Festival di Cannes cancellata dalla pandemia. Il delegato generale però ha deciso di rendere comunque pubblico l’elenco dei titoli prescelti – non sia mai che qualche altro festival li faccia suoi – a rivendicare una sorta di «primato» che avrà la forma della «Cannes label», etichetta di «qualità» con la quale avviarsi verso un luminoso destino, e magari essere accolti da altri festival nei prossimi mesi.
Può sembrare assurdo, e visti i tempi e i problemi del settore e di molti dei suoi lavoratori in un certo senso lo è; e se da una parte possiamo comprendere la frustrazione nel veder sfumare la fatica di mesi, in questa decisione la cifra più evidente appare però quella del potere.

UN ESEMPIO? Il più banale: visti i successi dello scorso anno con l’Oscar alla Palma d’oro Parasite, il festival potrà comunque, nel caso ci siano riconoscimenti a qualcuno dei film, avvalersi del risultato. C’è poi la particolarità della situazione che aiuta: le regole della «prima mondiale» di alcuni altri festival, la Mostra di Venezia in testa, potrebbero concedere delle eccezioni (è quel che si dice da giorni per Tre piani, il nuovo film di Nanni Moretti) come ha già fatto il festival di San Sebastian il cui direttore, José Luis Rebordinos, ha accettato di includere nel suo concorso i titoli di Cannes.

In una intervista ieri su «Variety» Frémaux ha detto che i film saranno 56 di cui 15 opere prime, e 16 di registe. Di alcuni si è già detto, da The French Dispatch di Wes Anderson a Comes Morning di Naomi Kawase, Another Round di Thomas Winterberg, Memoria di Apichatpong Weerasethakul, On the Rocks di Sophia Coppola – prima produzione Apple Tv – John and the Hole di Danielle Arbid, mentre altri come Benedetta di Verhoeven o Annette, il primo film in lingua inglese di Carax, sono stati posticipati probabilmente anche a causa dei ritardi di lavorazione dovuti al lockdown, all’anno prossimo. Fa un po’ «battaglia navale», che vista la crisi viene da chiedersi: serve? Aiuta?

INTANTO in Francia da ieri è iniziata la progressiva riapertura dei musei e del teatri nelle zone «verdi» – il 22 giugno in quelle «arancioni» – mentre i cinema hanno chiesto di posticipare al 22 per tutte le aree in modo da garantire l’uniformità della programmazione sul territorio nazionale. La situazione come in Italia e nel resto del mondo è di estrema incertezza sia per i lavoratori dello spettacolo che hanno dato vita in queste settimane a numerose proteste per richiedere un supporto governativo, che per gli esercenti o i gestori dei teatri i quali a loro volta vogliono un sostegno per fronteggiare le spese della riapertura non coperte da una presenza sicuramente ridotta di spettatori, almeno all’inizio, sia per la paura che per le regole del protocollo sanitario. I teatri provano a immaginare spettacoli «postCovid», gli esercenti a districarsi tra areazione, distanziamento, numero di sedie.

ANCHE oltralpe poi in questi mesi sale virtuali e piattaforme si sono decuplicate – lo stesso Frémaux, dopo qualche anno di polemica ha riaperto la Croisette a Netflix nelle sezioni non di concorso. Insomma per le «battaglie navali» non sembra proprio il momento giusto.