C’è un passaggio nel finale di Phoenix (di Christian Petzold, 2014) in cui l’alchimia del cinema diviene all’improvviso visibile, si fa essa stessa narrazione. La protagonista, Nelly – Nina Hoss – sopravvissuta ai campi di concentramento davanti agli «amici» ritrovati del passato canta Speak Low. È lei o è un’altra? Cosa si nasconde in quel (come recitava il titolo italiano del film) Segreto del suo volto? Eppure non ci sono trucchi né maschere, anzi la donna all’inizio del film, quando il medico che le ricostruisce il viso – non sappiamo per quale ragione – le chiede se davvero vuole essere «come prima» perché è meglio apparire diversi risponde di sì. La «maschera» è dunque negli occhi di chi le sta davanti, esprime la scelta di non guardare, di non riconoscere, di non assumere una responsabilità? Metafora storica – la Germania di fronte al nazismo – e personale, ciò che vediamo e ciò che vogliamo vedere, le proiezioni dei sentimenti, ma anche della visione di noi spettatori davanti ogni immagine su uno schermo.

Il futuro post-Covid 19 è mascherato, quel quadrato di tessuto che si appoggia sulla nostra bocca e il nostro naso è uno degli imperativi fondamentali a cui dobbiamo sottoporci – insieme al distanziamento – per ritornare nello spazio pubblico, una barriera che protegge e ci protegge, che disegna in modo nuovo il volto creando una separazione tra noi e il mondo. Il cinema, e più in generale l’immaginario, non hanno però atteso la pandemia per fare della maschera un feticcio, pensiamo alle figure del teatro greco, o a quelle della commedia dell’arte e ancora a Shakespeare e al suo Sogno di una notte di mezza estate, a Ovidio e alle Metamorfosi. Feticcio, strumento di seduzione, di terrore o di rivolta la maschera è qualcosa che assume un significato oltre sé stessa, metafora di un enigma, specchio deformante, il mezzo con cui passare da una realtà all’altra o che permette di cambiare le sorti, i destini, le vite in una girandola di sliding doors.

Sono moltissimi i film attraversati dalla «maschera» che camuffa i personaggi, libera doppi e alterità, infrange le regole amorose, crea mistero, dolore, piacere fino a essere uno sfacciato strumento di seduzione o di potere. Ci sono, naturalmente, i super eroi, Spiderman, Superman, Batman, gli Uomini invisibili, che nel costume conquistano i poteri che li rendono speciali o pericolosi. E ci sono i giustizieri leggendari, come Zorro – l’uomo mascherato che ha avuto tra i suoi interpreti da Douglas Fairbanks a Antonio Banderas – difensore dei deboli o degli oppressi, i criminali come Monsieur Fantomas che sul travestimento fondano le architetture dei loro delitti . «Mi maschero da» dicono i bimbi – e i grandi – a Carnevale. Non è una fantasia che somiglia a quella dello schermo? Anche guardando un film «ci mascheriamo da», per qualche ora entriamo in un’altra storia, in un altro tempo, in un’altra realtà: la nostra?

Cosa c’è sotto alla maschera del «mostro», qual è il volto di Hannibal (Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, 1991), l’oscuro assassino seriale, ha i segni dei suoi atroci atti o è invece come qualsiasi altro uomo? In una stanza d’hotel, protetto da un panno nero El Sicario (di Gianfranco Rosi, 2010) racconta gli omicidi che ha commesso per il cartello della droga messicana: la realtà evocata nelle sue parole, dalle mani nervose che disegnano sui fogli di carta, ci getta in un orrore ancora più «reale» nell’assenza di un volto…

L’elenco di tutti i film «mascherati» è impossibile perché appunto la maschera è una parte stessa dell’«identità» delle immagini, della scommessa del cinema che è quella di inventare (o reinventare) e scoprire il mondo. George Franju a proposito di Les Yeux sans visage diceva: «Amo ciò che è realistico, perché trovo che sia più poetico. La vita è molto più poetica di qualunque cosa si possa immaginare». Se pensiamo alla storia del suo film, un archetipo per molti altri – citato in forma di omaggio da Leos Carax in Holy Motors, 2012), che «maschera» Edith Scob come era nel film di Franju – il chirurgo reso folle dal senso di colpa per avere causato ubriaco l’incidente in cui la figlia, Edith Scob appunto, è rimasta sfigurata che si accanisce come un Frankenstein a ricostruirle il viso con la pelle di ragazze che uccide – la maschera divengono gli occhi, paradossalmente l’unico dettaglio visibile, che rivelano un erotismo, un mistero, qualcosa che non sappiamo, che possiamo solo intuire. Mascherati sono i personaggi di Joao Pedro Rodrigues, il suo O Fantasma, attraversa la notte di piaceri e «trasgressioni», l’iconografia di gender nel teatro sadomaso, messinscena di un altrove.

La coppia giovane e bella di Cruise/Kidman esce per andare a una festa. Ma nel Doppio sogno del ballo in maschera kubrickiano di Eyes Wide Shut (1999) il travestimento che sia costume, fantasia o incubo premonitore scopre invece di nascondere mettendo a nudo i fantasmi del rapporto amoroso, silenzi, tradimenti anche solo fantasticati, improvvisi non detti. Marito e moglie di fronte all’inconfessabile (di un rapporto): e se mascherarsi fosse un momento di verità? Uno spazio del possibile, del lecito, un altrove in cui concedersi quanto il quotidiano nega?

La figura sottile di Irma Vep (1996) scivola lungo l’orizzonte dell’inquadratura: Assayas fonde nella sua maschera Les Vampires di Feuillade amato dai surrealisti e il cinema di Hong Kong grazie al corpo dell’ attrice, Maggie Cheung – la maschera è sempre una questione di corpi, pensiamo al gioco Travolta/Cage nel magnifico Face/Off (1997) di John Woo. Quando Merrick finalmente si sdraia raggiungendo quella tranquillità che la vita da freak gli ha negato duramente, capiamo il suo desiderio, la dolcezza negata dal suo aspetto di Elephant Man (di David Lynch, 1980) che nemmeno la maschera è riuscito a proteggere. Dietro nessuno ha saputo guardare.