Mentre Barack Obama incassa una vittoria limitata e temporanea, ma significativa, contro i «Tea Party» repubblicani e si mostra, una volta tanto, leader risoluto e capace, ecco arrivare nelle librerie statunitensi uno straordinario volume che ci ricorda come 150 anni fa un altro leader, in questo caso bianco e repubblicano, cambiava rotta in tempi molto rapidi e dava una sterzata «rivoluzionaria» alla Guerra civile. Combattuta sino a quel momento per l’obiettivo limitato della difesa dell’Unione dalla secessione confederata sudista, nel tardo settembre 1862 la guerra assumeva un nuovo volto. Attraverso il «Proclama di Emancipazione» Abraham Lincoln trasformava il conflitto in una guerra con un obiettivo enorme e ambizioso: liberare quattro milioni di esseri umani. Il Proclama dichiarava «libere le persone tenute schiave» nei territori «in ribellione contro l’Unione». Sarebbe entrato in vigore all’inizio dell’anno successivo.

Che cosa questo significò per gli Stati Uniti e in particolare per quegli schiavi che costituivano quasi un terzo della popolazione sudista lo dicono le oltre 400 pagine del libro di Bruce Levine The Fall of the House of Dixie. The Civil War and the Social Revolution That Trasformed the South (New York, Random House, pp. 441, 30 dollari). Allievo del grande storico di sinistra Herbert Gutman e da tempo uno dei massimi storici della Guerra civile, Levine conferma qui le doti di acuto studioso e affascinante narratore già manifestate sin dal suo primo lavoro, The Spirit of 1848, dedicato ai «quarantottardi» tedeschi emigrati negli Usa all’epoca del conflitto e poi arruolatisi nelle file nordiste (tra questi anche il famoso Joseph Weydemeyr, militare e giornalista amico di Marx, colonnello nelle file nordiste). E fornisce la più efficace sintesi della guerra vista dal Sud.

Una decisione inaspettata

Come reagirono i piantatori sudisti di fronte al Proclama lincolniano? Risposero che «Nessun proclama che gli Yankees hanno emanato o possano emanare avrà il minimo effetto sulla popolazione del Sud» e che «la schiavitù continuerà intatta e impenetrabile come la rocca di Gibilterra». Al tempo stesso si misero a strepitare contro il «tradimento» e il «voltafaccia» di quel Lincoln che ancora pochi mesi prima, nel dicembre 1861, nel suo primo messaggio annuale al Congresso, aveva garantito che avrebbe fatto in modo di evitare che «il conflitto… degeneri in una lotta violenta e irriducibilmente rivoluzionaria», cioè al di là dell’obiettivo minimo di preservare l’Unione. Così dicendo Lincoln si era invero guadagnato il «disgusto» di Friedrich Engels, che nella primavera del 1862 scriveva all’amico Karl Marx chiedendosi, sgomento, «dove» mai, «fra la gente» di quella spaventosa guerra, si potesse cogliere «un qualche segno di vigore rivoluzionario», «dove, in tutto il Nord» ci fosse «la minima indicazione che la gente ha seriamente a cuore qualcosa?».

Di fronte al Proclama di Emancipazione, Marx, che del primo cittadino Usa aveva un’opinione alquanto diversa da quella dell’amico, fece notare a quest’ultimo che «il presidente Lincoln non si avventura mai troppo avanti prima che l’onda degli eventi e l’urgenza generale dell’opinione pubblica gli impediscano ulteriori rinvii». Aggiunse che «una volta che il vecchio Abe capisce che questa svolta è stata raggiunta, egli sorprende amici e nemici con un’operazione improvvisa realizzata col minor rumore possibile». E concluse che il Proclama era «il più importante documento della storia americana dalla costituzione dell’Unione».

Aveva ragione Marx, che aveva colto la portata rivoluzionaria di questa decisione. Una decisione presa da un politico moderato, è bene sottolinearlo, personalmente contrario da sempre alla schiavitù per ragioni morali, probabilmente convinto, come la maggioranza dei nordisti, che i neri fossero inferiori ai bianchi, a causa della lunga condizione di cattività nella quale erano stati tenuti, ma decisamente tutt’altro che abolizionista. Un politico che tuttavia, nel fuoco di un conflitto senza precedenti per portata, distruzione e vittime (se ne sarebbero contate alla fine oltre 700.000), di fronte alla triplice esigenza di indebolire la Confederazione sudista, rafforzare le risorse dell’Unione e persuadere l’opinione pubblica mondiale della bontà della causa unionista, cedette alle pressioni di quanti, e stavano crescendo nel Nord, spingevano in direzione esplicitamente antischiavista: la minoranza abolizionista, i militanti neri come il leggendario ex-schiavo Frederick Douglass, gli esponenti radicali del suo stesso partito e segmenti sempre più ampi dell’opinione pubblica nordista. Lincoln fece dunque il grande passo e colpì al cuore la Confederazione, sottraendole il capitale più prezioso e la ragione di esistenza. Gli schiavi valevano 3 miliardi di dollari, una somma che superava il valore di tutte le piantagioni sudiste messe insieme ed era tre volte più grande dei costi di costruzione di tutte le ferrovie statunitensi dell’epoca.

Una atavica paura

Erano, Levine chiarisce una volta per tutte contro tutti i tentativi revisionisti di dire, prendendo per buone alcune dichiarazioni delle élite sudiste, che la guerra incarnò una «nobile» battaglia per la difesa delle autonomie e dei diritti degli stati, la ragione principale per la quale i sudisti combattevano. Lo dimostra molto bene il dibattito, a lungo dimenticato e al quale Levine ha dedicato qualche anno fa il bellissimo Confederate Emancipation. Southern Plans to Free and Arm Slaves During the Civil War (New York, Oxford University Press, pp. 252), che si scatenò nel Sud, tra il 1863 e il 1865, mentre la situazione si faceva sempre più difficile per il Mezzogiorno, attanagliato da un crescente spirito di disfattismo che opponeva i «bianchi poveri» e i semplici farmer ai grandi piantatori, accusati fondatamente dai primi di sottrarsi allo scontro attraverso compiacenti esenzioni. Ne era oggetto un piano di manomissione degli schiavi in cambio dell’arruolamento. Avanzato a più riprese da una minoranza autorevole delle élite della Confederazione, il progetto faticò a superare l’atavica paura sudista di una ribellione degli schiavi, una volta armati, paura evidentemente tanto più forte in tempo di guerra. La discussione così si risolse, nel marzo 1865, un mese prima della fine del conflitto, in una misura legislativa tardiva e limitata, in quanto prevedeva solo l’arruolamento di diverse centinaia di migliaia di schiavi, ma senza la loro liberazione. Sicchè alla fine, data la ferma resistenza degli stessi schiavi ad aderire al progetto, un dibattito che sembrava interminabile partorì il topolino dell’arruolamento di non più di un paio di centinaia di afroamericani. Ma fu importante perché, come bene chiarì uno dei più risoluti oppositori del provvedimento che disse senza mezzi termini che esso metteva in discussione la ragione stesa del conflitto («Per che cosa siamo andati in guerra?»), fece uscire allo scoperto le élite sudiste, mostrando come fosse proprio la concretissima schiavitù, e non i fantomatici diritti degli stati come esse sostenevano, il grande oggetto del contendere.

Aveva ragione dunque Marx e avevano torto le élite sudiste, stolidamente convinte che niente potesse cambiare. Avevano torto soprattutto perché avevano sottovalutato la grande capacità di presa di parola, di azione concreta e di mobilitazione, per la causa unionista e per sé, degli schiavi. Ecco dunque l’altra e decisiva faccia della guerra come «seconda» rivoluzione degli Stati Uniti, dopo quella del 1776 per l’indipendenza dalla madrepatria. Qui Levine naturalmente riprende ed estende le argomentazioni svolte ottant’anni fa dal grande studioso nero W.E.B. DuBois in Black Reconstruction (1935), che gettava luce sulla capacità di self-activity degli afroamericani nell’immediato dopo-Guerra civile, grazie alla formidabile ricerca accumulatasi nel frattempo sul tema. Di DuBois conserva la lezione di non lasciarsi prendere da prospettive astratte e manichee, come quelle che vedono gli schiavi completamente «passivi» durante la schiavitù e poi improvvisamente capaci di «inserirsi immediatamente nell’esercito della libertà» durante la guerra. Ne segue invece passo passo la complessa e travagliata maturazione individuale e collettiva, prima del Proclama e dopo, e poi all’arrivo delle truppe nordiste. Mostra come, superando enormi e comprensibili difficoltà, seppero imparare ad alzare la testa, dopo due secoli e mezzo di cattività. E, sull’esempio dei loro compagni del Nord, che si erano costituiti in formazioni volontarie dandosi nomi apparentemente fantasiosi, ma che riflettevano consapevolezza della loro storia, come quello di «Guardie di Annibale», si fecero avanti, abbandonarono i piantatori al loro destino e si offrirono di arruolarsi nell’esercito unionista, ricevendone dapprima rifiuti, in nome del pregiudizio forte anche al Nord, poi l’accettazione come ausiliari e infine come soldati a pieno titolo. E pagarono in certi casi un prezzo altissimo, come in occasione del «massacro di Fort Pillow», quando, nel maggio del 1864, fatti prigionieri dalle truppe del generale Nathan Bedford Forrest (futuro fondatore del Ku Klux Klan) nel Tennessee occidentale, furono ignominiosamente passati per le armi, in violazione di qualunque codice militare e a dispetto di tutte le dichiarazioni sudiste di rispetto dell’«onore».

Fare società

Anche i neri provarono con determinazione a fare società, aprirono chiese autonome, scrollandosi di dosso gli insegnamenti ricevuti nelle chiese dei padroni, dove a catechismo agli schiavi si insegnava a rispondere alla domanda «Perché Dio vi ha creati» con la risposta «Per lavorare nei campi». Crearono scuole, tentarono di appropriarsi delle terre abbandonate dai padroni, accumularono esperienza economica e politica, che avrebbero cercato di far valere nel dopoguerra, una volta ufficialmente liberati. Sulle orme di DuBois, Levine conclude ricordando come la stagione di libertà e combattuta autonomia conosciuta nel dopoguerra si sarebbe esaurita, nell’arco di pochi anni, dinanzi al ritorno del potere bianco, con l’appoggio degli stessi nordisti più moderati. Nelle parole dello studioso nero, «Lo schiavo si liberò; rimase per un breve momento alla luce del sole; quindi fu cacciato di nuovo verso la schiavitù» di fatto. Ma Levine ricorda opportunamente che, grazie alle lotte nere, «la seconda rivoluzione americana non fu completamente rovesciata». DuBois, dice Levine, «scelse le parole bene». Scrisse che «i neri del Sud dopo la Ricostruzione furono costretti a regredire verso la schiavitù, non nella schiavitù». E, come disse Frederick Douglass, la lezione che essi impararono allora e trasmisero in eredità a tutti noi è la capacità inesausta di «scrivere gli statuti della giustizia e della libertà eterne nel sangue della peggiore delle tirannie come un monito per tutte le generazioni future».