Nessuno sollevò obiezioni quando il sindaco Piero Fassino, a fine dicembre 2011, annunciò in consiglio comunale che Torino non avrebbe rispettato il patto di stabilità per evitare un clamoroso fallimento (casse vuote e servizi a rischio a causa di 200 milioni di euro di debiti). Nemmeno la giovane consigliera comunale del Movimento Cinque Stelle: aveva 26 anni e non conosceva ancora la complessa macchina comunale di una città come Torino. «Ho comprato tre libri per capire cos’era il patto di stabilità e li ho letti durante le vacanze di Natale, alla prima seduta del consiglio comunale ho fatto il mio primo intervento in aula», ricorda Chiara Appendino sorseggiando una spremuta d’arancia. Un intervento puntuale e dettagliato, per qualcuno esasperante.

Da quel momento per il sindaco di Torino lei è «la secchiona dei Cinque Stelle», un tormento che ormai non può più liquidare con una battuta. Chiara Appendino è laureata alla Bocconi di Milano e dopo aver lavorato nel controllo di gestione finanziaria di una nota squadra di calcio locale (con maglia a strisce bianconere) ricopre le stesse funzioni per un’azienda torinese. Un profilo che certo non può spaventare la buona borghesia torinese. Nessuno qui, infatti, si prende gioco dei 5 Stelle, come accade altrove, e non è un caso se anche La Stampa ha un atteggiamento sostanzialmente equilibrato, «forse non ci aiutano ma non sono particolarmente ostili».

 

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A Torino ricordano ancora quella frase che Piero Fassino ha rivolto in maniera sprezzante alla prima della classe: «Un giorno si segga lei su questa sedia e vediamo se è capace di fare tutto quello che ho fatto io». Una profezia? Potrebbe essere. Oggi questa giovane donna candidata a sindaco potrebbe far saltare il «sistema Torino», quel grumo di interessi e poteri che da 23 anni detta legge sotto l’ala protettrice del Pd.

Adesso ha 31 anni, cinque di esperienza in più – è vice presidente della commissione Bilancio – ed è appena diventata mamma di una bambina (il sindaco le ha inviato un mazzo di fiori per salutare la piccola Sara). «Meno male che è femmina, altrimenti mio marito lo avrebbe chiamato Attila». Non ha ancora smesso di studiare. Conosce quasi tutte le delibere a memoria ma non è un vanto, lo dice solo per prendere in giro Piero Fassino: perché è un secchione anche lui. «Chiara studia tutte le delibere, va a letto a mezzanotte e si alza alle cinque del mattino per leggere i giornali, poi va nei mercati di periferia», dice con aria protettiva Paolo Giordana, il quarantenne funzionario del comune di Torino che è rimasto folgorato da quel primo intervento sul patto di stabilità. Mancano sei mesi alle elezioni e sono loro due (insieme ai 250 attivisti del M5S che l’avevano candidata all’unanimità alle primarie di novembre) ad indirizzare quel processo dal basso che potrebbe guastare i piani del partito della nazione tanto caro al presidente del Consiglio.

La convergenza dei due blocchi che per più di vent’anni si sono spartiti il potere non è un’invenzione giornalistica, soprattutto qui a Torino, dove la ricandidatura a sindaco di Piero Fassino è stata appoggiata ufficialmente da Enzo Ghigo – tra i fondatori di Forza Italia e già governatore del Piemonte con il centrodestra – e da Michele Vietti – uomo del centrodestra e già fedelissimo di Pierferdinando Casini. «Se singoli esponenti del centrodestra esprimono un apprezzamento per come ho governato la città, non posso che prenderne atto», ha alzato le spalle Piero Fassino per minimizzare l’operazione partito unico sotto la Mole. L’obiettivo del Pd è vincere al primo turno imbarcando pezzi di centrodestra (e di Comunione e liberazione) per non doversi misurare con il M5S in un ballottaggio che potrebbe risultare disastroso, soprattutto per le ripercussioni a livello nazionale.

 

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Da qui l’accusa di intelligenza con il nemico rivolta alla lista di sinistra di Giorgio Airaudo che sarebbe colpevole di spalancare la porta ai “barbari” di Grillo e Casaleggio. L’appello del Pd torinese a serrare le fila per dare forma a un’indistinta formazione centrista, con tutte le evidenti differenze del caso, ricorda un po’ la chiamata all’unità nazionale della Francia repubblicana contro il Front National. Ma il piano potrebbe rivelarsi un boomerang: il centrodestra, anche a Torino, è ridotto ai minimi termini (non hanno ancora scelto il candidato) e la delusione dell’elettorato di sinistra nei confronti di Piero Fassino è un fatto epidermico più significativo di un sondaggio; senza contare il fatto che buona parte dell’elettorato del centrodestra al ballottaggio potrebbe anche decidere di scegliere i Cinque Stelle. Ce la farà il Pd? I numeri, per quello che valgono a sei mesi dalle elezioni, dicono che il partito e le varie liste affiliate sono lontani dal 51%. I giochi sono aperti. Hanno paura di perdere. In Piemonte esiste già un piccolo precedente, significativo. Lo scorso anno, nel comune di Venaria, al ballottaggio tra Pd e M5S, la sinistra appoggiò il candidato grillino Roberto Falcone: oggi è sindaco (72%).

Chiara Appendino, con Paolo Giordana, ha scritto un piccolo libro per riflettere su una nuova concezione della politica in chiave post ideologica – La città solidale, per una comunità urbana (Luce Edizioni) – ma non possiamo cominciare da qui per riflettere sulla “transizione possibile”, perché nel libro che contesta l’egemonia dei “valori” del mercato e sposa l’approccio di Adriano Olivetti per «attualizzare una nuova concezione della politica» mancano due capitoli fondamentali per qualunque aspirante amministratore a cinque stelle: il rapporto con i vertici, o capi del movimento, e la selezione di una classe dirigente che non sempre si sta rivelando all’altezza della situazione quando si tratta di amministrare un comune. Parma, Livorno o Quarto forse non sono solo “fatti” di cronaca.

Le note dolenti. «Da quando sono stata eletta non ho mai avuto la sensazione di essere eterodiretta, anzi, semmai di essere lasciata allo sbaraglio, i territori sono molto autonomi. Anche con i parlamentari non ci confrontiamo quasi mai sui temi locali, non sono mai stata orientata su quali decisioni dovessi prendere in consiglio comunale. Ci parliamo, ma discutiamo soprattutto di temi più generali, in questi giorni per esempio ci siamo confrontati sulle unioni civili». Casaleggio? «L’ho sentito una volta dopo la mia candidatura, mi ha chiamato per farmi gli auguri». Chiara Appendino non si nasconde, governare è difficile e la selezione della classe dirigente è un problema molto serio, «ma per tutti, non direi che sono questioni che riguardano solo il Movimento Cinque Stelle».

Per ragionare in termini “post ideologici” con una giovane candidata dei Cinque Stelle bisogna maneggiare con cura un concetto chiave che per brevità chiameremo “sinistra”. Si dovrebbe anche essere disposti a comprendere perché, per una trentenne, oggi non sia così difficile raccontarsi a prescindere da una definizione sempre più svuotata di senso. Eppure, tra le righe di ogni ragionamento che guarda al “bene comune”, si intuisce quasi una sentimento di rivalsa che riguarda proprio il fallimento di quella promessa: «Le storiche divisioni tra destra e sinistra – scrive Chiara Appendino a pagina 6 del suo piccolo libro – sono state definitivamente superate: non esiste un singolo movimento politico di sinistra che abbia governato o che governi nell’occidente sviluppato e non si sia adeguato tanto al linguaggio quanto ai valori del Mercato».

Meglio non incartarsi sulle definizioni. Però qualcuno, nel Movimento, dice che lei sarebbe troppo di sinistra. Il suo collega Vittorio Bertola per esempio (il secondo consigliere dei Cinque Stelle al comune di Torino) che ha deciso di non ricandidarsi in seguito a una polemica su un altro tema scivoloso per il M5S: l’immigrazione. Bertola già si pensava vicesindaco, ma le cose sono andate diversamente.
Il discorso si potrebbe chiudere con la presentazione di certi titoli: «Ho votato per l’abolizione del reato di clandestinità e anche la mozione di Sel che chiedeva la chiusura del Cie di via Brunelleschi». Se non fosse che il tema della sicurezza, anche a Torino, potrebbe infiammare le prossime elezioni, «le periferie sono state abbandonate da questa amministrazione e non possiamo trascurare il fatto che laddove c’è paura dell’altro stanno emergendo sentimenti xenofobi».

I cinque stelle prendono le distanze dalla paranoia securitaria – «non servono più telecamere per presidiare il territorio» – e sognano di rivitalizzare le periferie creando una sorta di centro in ogni quartiere. Sono prudenti, sanno che il terreno è minato. «Stiamo organizzando molti incontri per coinvolgere le persone, non possiamo limitarci a liquidare come razzisti i cittadini che esprimono un disagio, la nostra strategia è l’ascolto, questo è il vantaggio di ripartire dal basso». Ritengono decisivo anche il Comitato Interfedi, un organismo poco utilizzato che già esiste e che dovrebbe favorire l’incontro tra le religioni.

I cinque stelle di Torino si sentono alternativi al Pd anche quando parlano di povertà, disoccupazione giovanile e sostegno alle piccole e medie imprese. Siamo (quasi) in campagna elettorale, logico che abbiano gioco facile nel dire «è colpa loro» se dopo ventitré anni la città è in queste condizioni. «Le disuguaglianze sono aumentate in maniera impressionante – spiega Appendino – e Torino è in sofferenza perché sono i lavoratori ad essere diventati poveri. La disoccupazione giovanile è al 44%, un record per il nord. Le piccole e medie imprese sono in difficoltà mentre in Comune si verificano sprechi inaccettabili». Con un taglio del 30% delle consulenze esterne, spiegano, si potrebbero risparmiare da subito 5 milioni di euro da destinare a un fondo per inserire i giovani nel mondo del lavoro.

A una domanda sola Chiara Appendino (quasi) non risponde. In caso di ballottaggio, come relazionarsi con la lista di sinistra di Giorgio Airaudo? «Il nostro orizzonte è il bene comune, a quel punto decideranno loro se votare per la discontinuità o per la continuità con il sistema Torino». Ecco un altro terreno minato, non solo per loro. È anche per questa possibile e inedita convergenza alle urne che la città della Mole oggi può diventare il laboratorio di un nuovo orizzonte politico. Con questo scenario la nuova sinistra torinese (e non solo) dovrà confrontarsi al più presto, per non rischiare di perdere la bussola. Lacerante, ma è un dibattito aperto.