All’equinozio di marzo, nelle campagne padane, accadeva un tempo che alcuni individui, specialmente ragazzi, spostandosi stabilmente all’aperto per la prima volta dopo un lungo inverno, fossero colpiti improvvisamente da temporanea cecità. Il famoso medico di Carpi Bernardo Ramazzini, vissuto nella seconda metà del Seicento, fu il primo a collegare questo male alle condizioni di vita delle famiglie contadine, costrette nella stagione delle nevi a cercare calore in case che erano anche stalle, ambienti in cui uomini e animali convivevano in promiscuità. Per Ramazzini, le condizioni dell’aria e la cattiva alimentazione erano all’origine di una serie di mali che affliggevano i lavoratori rurali: pleuriti, polmoniti, asma, coliche, angine, carie dentarie. Si faceva strada, per la prima volta, la consapevolezza di una eziologia medica non dipendente da disposizioni individuali ma dal contesto ambientale, economico e sociale. E aveva inizio, così, quella lunga tradizione intellettuale che, rafforzata poi dalla cultura dei Lumi, avrebbe trovato piena espressione nel XIX secolo, epoca in cui venne fissata definitivamente da una parola chiave destinata a immensa fortuna: igiene.

Una barriera tra interni e esterno

Proprio all’affermazione della cultura medico-igienica nelle campagne italiane dell’Ottocento è dedicato ora l’intrigante volume di Adriano Prosperi titolato Un volgo disperso Contadini d’Italia nell’Ottocento (Einaudi, pp. 324, e 32,00), dove il grande studioso della religione cattolica nella prima età moderna indaga l’igiene come un’altra religione, laica e borghese, capace di promettere il paradiso terreno costituito dalla difesa dalla malattia e dall’esorcizzazione della morte. Il viaggio, alla scoperta di un mondo antico, per lo più dimenticato, è davvero insolito. Per noi oggi, divenuti ciechi, un po’ come i fanciulli di Ramazzini, le campagne sono quasi solo l’espressione della natura incontaminata, mentre al tempo dei nostri bisavoli erano plasmate da un intenso lavorìo umano fatto di colture alternate a pascoli e boschi, di sentieri e campi seminati, di vie d’acqua artificiali. Lungo il corso del XIX secolo è avvenuto un cambiamento storico che ha reso il mondo rurale di quei contadini recondito e incomprensibile.
Non solo sono scomparsi i modi di dire, gli attrezzi da lavoro, la percezione del tempo scandita da proverbi e detti popolari, ma si è verificata una fondamentale inversione: tra l’esterno della casa, vissuto fino ad allora come spazio aperto a tutte le funzioni della vita, e gli interni abitativi, fatti di intimità e di comfort. Tra questi due mondi è calata una sorta di barriera. Un discrimine, suggerisce Prosperi, saldamente impiantato dalla cultura borghese dell’igiene, una visione del mondo sociale che include la pretesa di ridefinire cosa è accettabile e cosa no, cosa è sporco e cosa è pulito, suggerendo la via della salvezza come opposta alla perdizione.

Con l’attitudine tipica di quella che un tempo si chiamava history from below, il libro di Prosperi va alla ricerca di un tempo perduto, del quale restano scarse tracce: rari i volti, poche le voci, quasi sempre andate smarrite, mute le tante anonime croci poste in calce, a mo’ di firma, a contratti colonici. Occorre affidarsi alle descrizioni degli altri, agli sguardi esterni; ma i letterati (e anche i pittori e poi i fotografi) sono stati attratti più dal paesaggio agrario che da coloro che vi lavoravano, rappresentati al più come personaggi secondari, sullo sfondo.
Per ridare voce e immagine alla folla indistinta dei contadini, quella che Pierre Bourdieu ha chiamato «la classe oggetto», Prosperi non usa, come sarebbe stato lecito attendersi, le indagini demologiche o i materiali raccolti dai folcloristi e neppure, malgrado i numerosi rimandi ai Quaderni dal carcere, le categorie gramsciane, ma piuttosto – ed è una scelta chiaramente riferibile alla lezione di Foucault – le inchieste mediche, opere scritte per curare e riformare il mondo rurale. Dopo le prime rilevazioni statistiche, fra cui quelle di Melchiorre Gioia e di Giuseppe Maria Galanti, sono infatti i medici a introdurre, alla metà dell’Ottocento, un genere di indagine sociale che il libro ripercorre con attenzione, raccontando il tentativo insistito degli uomini col camice bianco di insidiare lo strapotere tradizionale del nero abito talare dei parroci. L’igiene, suggerisce Prosperi, è più di un insieme di prescrizioni mediche finalizzate a combattere le perniciose malattie del secolo (dal colera alla pellagra, passando per la tisi, il vaiolo, la scrofola, la malaria): è un nuovo ordine sociale fondato sulla separazione tra pulito e sporco, tra puro e impuro: «Assetto della casa abbigliamento, alimentazione, nascita e cura dei bambini sepoltura dei morti e altro ancora cessarono di essere forme tradizionali di comportamento richieste da convinzioni religiose ed abitudini locali e ricaddero sotto il governo della scienza e delle regole collettive imposte dallo stato».

La visione lombrosiana
Di questa separazione furono vittime gli individui, da quelli scartati alla visita di leva perché rachitici, di bassa statura o afflitti da gozzo, a quelli internati in manicomio come conseguenza della pellagra, devastante malattia legata alla malnutrizione. Il libro ripercorre così la storia delle inchieste sanitarie, a partire da quelle condotte a Torino da Luigi Pugliani, primo cattedratico di igiene, che dimostrarono lo stretto rapporto fra alimentazione, igiene e crescita fisica degli individui, sino a quelle di Paolo Mantegazza e di Ludovico Balardini, ispirate alle idee di Cesare Lombroso. La cultura medica si trovò a un certo punto di fronte al bivio tra una spiegazione delle malattie che rimanda a profonde cause sociali, come la miseria e la povertà dell’alimentazione, l’insalubrità delle condizioni di vita e di lavoro, forme di quella che venne chiamata la «questione sociale»; e un’altra linea interpretativa fondata su spiegazioni propriamente medico-scientifiche, non di rado iscritte in visioni del mondo segnate dal darwinismo sociale.

È il caso delle teorie lombrosiane, che facevano dell’accostamento fra malattie morali e la presenza di tratti fisici ricorrenti negli individui i segni dell’appartenenza a un ceppo degenerato, fermo a una tappa più arretrata della civiltà umana: venivano così introdotti meccanismi sociali di esclusione contro «i rappresentanti sociali dell’arcaismo, le classi legate alla terra, alle superstizioni, all’oralità», che «assunsero perciò il volto di gruppi sociali ben definiti, di vere e proprie razze». Sprazzi suggestivi introducono in queste pagine riflessioni che legano l’universo dei contadini raccontato attraverso l’immagine prodotta dalle inchieste mediche a filoni culturali marchiati dal razzismo, che hanno avuto un’importante e tragica prosecuzione nel Novecento e i cui echi non sembrano spenti.