Due meravigliose «bad girls» pronte a rivendicare – sia davanti che dietro l’obiettivo – il loro ruolo nella società: la performer indiana Pushpamala N. con l’acconciatura cotonata e l’abito anni Sessanta (Rêves d’or #10, 1998) punta la pistola verso l’osservatore nella foto di copertina di Une histoire mondiale des femmes di Luce Lebart e Marie Robert (Éditions Textuel, Paris 2020). Nell’ultima pagina, invece, l’iraniana Newsha Tavakolian ricorre al tableau vivant in Portrait de Negin à Téhéran (2010), ritraendo la giovane protagonista con il velo nero e i guanti rossi da boxe nello scenario (solo momentaneamente deserto) di una strada a scorrimento veloce con i grattaceli in lontananza.

In mezzo, ci sono 500 pagine in francese con 450 foto a colori e in bianco e nero dedicate a 300 fotografe internazionali: a partire dalla pioniera Anna Atkins, botanica e fotografa nell’Inghilterra vittoriana, autrice nel 1843 di Photographs of British Algae: Cyanotype Impressions (primo libro illustrato completamente con fotografie) fino a Felicia Abban, Miyako Ishiuchi, Letizia Battaglia, Sarah Moon, Paz Errázuriz, Deborah Willis, Graciela Iturbide, Dayanita Singh… spostandoci nel tempo e procedendo al di qua e di là dell’equatore.
Une histoire mondiale des femmes è un libro-manifesto tutto al femminile nato dalla collaborazione dei Rencontres d’Arles con la piattaforma Women in Motion che ha visto impegnate le storiche della fotografia Lebart e Robert, insieme ad altre 160 esperte internazionali invitate a redigere i profili biografici di tutte le fotografe.

Un’opera collettiva di scrittura enciclopedica che si pone come territorio di testimonianza, azione, condivisione, riflessione (anche ontologica), confronto e riconoscimento del lavoro delle donne fotografe nell’ambito di una sfera professionale considerata maschile o comunque «all’ombra di un maestro». Altri libri in passato hanno affrontato l’argomento, tra questi A History of Women Photographers (1994) di Naomi Rosenblum e How we see Photobooks by women (2018) di R. Lederman, O. Yatskevich, M. Lang; l’italiana Federica Muzzarelli che in Une histoire mondiale des femmes ha firmato la scheda di Lisetta Carmi è autrice di Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra Otto e Novecento (2007), mentre Raffaella Perna ha curato i cataloghi della collezione di Donata Pizzi, prima ad essere focalizzata sulle fotografe italiane, seguita da quella di Carmela Sanguedolce.

Ma solo con questa impegnativa pubblicazione la visione si amplia uscendo dallo sguardo marcatamente occidentale per analizzare il pensiero e il lavoro di autrici provenienti da tutti i continenti. «Non si tratta tanto di produrre una contro-narrazione o di decostruire le storie già prodotte, piuttosto di completarle. Lungi da noi il desiderio di bruciare idoli o demolire statue, ma l’aspirazione ad erigerne altre, per una storia più ricca, più giusta. Insomma, è urgente scrivere un’altra storia in modo diverso. Questo progetto è eminentemente politico: ritiene essenziale offrire modelli, riferimenti, filiazioni per gli uomini e le donne. Assume la multiculturalità e afferma la dimensione sociale delle identità, siano esse sessuali o razziali», scrive Luce Lebart.

Al di là delle figure consacrate già da tempo nell’olimpo dell’arte fotografica – tra cui Julia Margaret Cameron, Margaret Bourke-White, Lisette Model, Lee Miller, Gerda Taro, Vivian Maier fino alla più giovane Zanele Muholi – per le curatrici è altrettanto fondamentale restituire visibilità alle autrici dimenticate. «Chi conosce, al giorno d’oggi, il destino tragico della fotoreporter e paracadutista americana Dickey Chapelle (Georgette Louise Meyer), morta sotto le bombe in Vietnam nel 1965?», si chiede Marie Robert.

Moltissime sono le autrici da scoprire (o riscoprire) le cui storie sono entusiasmanti quanto l’originalità e la coerenza della loro opera. La passione per la fotografia viene declinata talvolta con la militanza come per Julie Laurberg, che con la sua apprendista Franziska Gad apre a Copenaghen uno studio famoso nel primo ventennio del XX secolo: non inquadrano solo le architetture e la corte reale, documentano anche il movimento per l’emancipazione femminile culminato con la revisione della Costituzione danese (5 giugno 1915) che concedeva il voto alle donne. Quel giorno la città si animò con migliaia di donne in marcia fino al palazzo di Amalienborg per esprimere riconoscenza al sovrano. Laurberg e Gad sono tra loro, fotografano e girano anche un film muto di 6 minuti: The Costitution 1915.

Un anno prima, il 1 settembre 1914, nasceva a Shinagawa (Tokyo) l’ultracentenaria Tsuneko Sasamoto prima fotogiornalista giapponese la cui carriera inizia nel 1940, in un momento storico drammatico. Shinagawa fotografa (probabilmente prima di Domon Ken) Hiroshima dopo il disastro della bomba atomica: le sue fotografie faranno parte della collettiva The New Woman Behind the Camera, curata da Andrea Nelson, in programma alla National Gallery di Washington (dal 14 febbraio al 31 maggio 2021).

La selezione include l’indiana Homai Vyarawalla anche lei prima fotoreporter del suo paese. In due pagine adiacenti troviamo anche fotografe molto diverse tra loro, la palestinese Karimeh Abbud (Lady Photographer) riscoperta solo cinquant’anni dopo la sua morte avvenuta nel 1955 a Nazareth e la statunitense (ma europea d’adozione) Florence Henri, protagonista delle avanguardie storiche. Fotografie dalle molteplici prospettive, quindi, che indagano aspetti etno-antropologici come quelle dell’attivista Claudia Andujar che ha trascorso cinquant’anni a fotografare la comunità degli Yanomami in Brasile o Laura Gilpin (in realtà solo citata nella scheda di Gertrude Käsebier) con la sua documentazione sui Navajo. Ci sono poi le scene di vita urbana associate a un’idea di dislocazione che Xing Danwen ha cominciato a scattare nella Cina degli anni ’90; la moda con le raffinatissime foto a colori di Louise Dahl-Wolfe per Harper’s Bazaar (1936-58) e il rapporto corpo-sessualità-identità esplorato con giocosa dissacrazione da Natalia LL (Lach-Lachowicz) nella Polonia del socialismo reale.

Tra gli autoritratti meno convenzionali ci sono quelli di Frances Benjamin Johnson che riceve in dono la sua prima macchina fotografica niente meno che da George Eastman, amico di famiglia, passato alla storia come inventore dell’apparecchio Kodak lanciato nel 1888 con il celebre slogan «voi premete il bottone, noi facciamo il resto».

Paragrafi e capitoli di storie diverse, ma in un certo senso comuni, che riflettono i vissuti personali delle protagoniste come quello dell’armena Maryam Sahinyan, anche lei prima fotografa professionista della Turchia moderna, dal cui studio fotografico (Foto Galatasaray) attivo ad Istanbul dal ’35 al 1985, escono oltre 1200 immagini in bianco e nero. Lei non ha pregiudizi. Fotografa coppie omosessuali che si abbracciano e donne senza il velo con lo stesso sguardo aperto di quella meravigliosa bambina dal volto antico (Senza titolo, Beyoglu, Istanbul, maggio 1961) che ritrae con le due ciocche di capelli lunghissimi e ondulati, separate e disposte davanti a sé come braccia protese verso il mondo intero.