Sara De Simone da anni si occupa di poesia e letteratura, da Emily Dickinson a Katherine Mansfield e Virginia Woolf, e la incontriamo spesso anche su queste pagine. Di recente ha pubblicato per Viella L’atto sospeso. Azione e inazione dell’eroe dall’Iliade a Virginia Woolf (pp. 188, euro 20), inoltrandosi in un percorso lungo molti secoli e intorno a un tema davvero originale.
Un arco così esteso di tempo e di storie, per non finire in narrazioni banali o già note, doveva di necessità esigere un taglio attento, ben ragionato, e doveva orchestrare la materia per squarci in grado di superare la distanza e affondare in spazi simbolici precisi ma tra loro comunicanti. Una scommessa non facile, a mio avviso felicemente vinta, perché mostra in modo inequivocabile come uno sguardo differente, quando si posa su una grande e comune tradizione, può farci vedere qualcosa che non è stato né visto né registrato prima. Il punto di vista è dunque importante, una specie di gradiente che mette in luce le variazioni possibili di quella stessa tradizione, perché varia la forma stessa dell’avvistamento. Cambia la cartografia del passato, lo illumina là dove qualcosa se ne stava in ombra, o del tutto al buio, non detto o cancellato.

NELL’«ATTO SOSPESO» sembra andare in pezzi quell’eterno atto eroico che pensavamo intangibile, soprattutto per l’inerzia con cui spesso viene trasmesso durante il nostro percorso scolastico (absit iniuria verbis, benedico sempre la scuola pubblica). Quando però, come in questo caso, la tradizione viene trafilata alla luce di un pensiero non binario, improvvisamente diventa chiaro che l’inazione non è necessariamente l’opposto, il negativo dell’azione ma, al contrario, genera e rafforza l’azione, e, sbucando dagli interstizi, dalle fessure di un pensiero non ancora pensato, la interpella in modo cogente.
Cosa succede dunque se in una narrazione l’eroe si ferma, smette di agire? Intanto succede che di fronte a questa tesi la nostra curiosità si accende e ci spinge a considerare da vicino un’orchestrazione così radicale della temporalità da tagliarla senza sgomento in tre grandi momenti della letteratura: l’antichità classica, il romanzo medievale del XIII secolo e la prima metà del Novecento.

Il libro di De Simone si apre sull’immagine di Brice Parain, filosofo-personaggio di un film di Godard, Vivre sa vie, che racconta un episodio in cui, nel Visconte di Bragelonne di Dumas, Porthos va incontro alla catastrofe per il semplice fatto di essersi messo a pensare come sia possibile mettere un piede dopo l’altro quando camminiamo. Un’ironia feroce ci fa vedere un eroe che soccombe «sotto il peso di un pensiero», e nasce qui la prima interrogazione del testo, che lavora intorno all’idea di come i tanti eroi «in sospeso», lungo la storia della letteratura, «da Arjuna ad Achille, da Oreste a Pelasgo, da Perceval a Lancelot, fino ad arrivare alla riscritture novecentesche di Orlando e Percival nell’opera di Virginia Woolf», mettano in crisi «lo stesso paradigma eroico di cui sono il simbolo».

INTORNO A QUESTO CUORE centrale dell’indagine si addensano studi e prelievi che provengono dal cinema alla fotografia, dai miti orientali e occidentali al teatro, alla filosofia, che agiscono tutti muovendo e percorrendo il tema da una colta profondità alla superficie, in modo spesso, e sorprendentemente, divertente. Il primo grande ritaglio temporale, la classicità, è accolto dalla riflessione filosofica di Simone Weil e Rachel Bespaloff, su posizioni diverse per quanto riguarda struttura e argomento del poema omerico (a questo proposito è bene ricordare il bel libro di Nadia Fusini, Hannah e le altre, precursore di questo ideale confronto). Per Weil, ne L’Iliade poema della forza, è propriamente la forza«il vero argomento, il vero centro» del poema, per Bespaloff è la poesia che ne «tiene assieme» «i ventiquattro libri».
De Simone sposa quest’ultima idea per due ragioni, la prima, subito messa in evidenza, è che è proprio della poesia l’interruzione, la cesura, l’aritmia e dunque la pausa, con la sua sospensione, arresta nell’istante la durata «che scandisce il ritmo indiavolato dell’azione» epica. Leggiamo di Elena, che nel terzo libro, sulle mura delle porte Scee, elenca a Priamo i nomi dei guerrieri achei più famosi, mentre si attende il duello che deciderà della guerra, ma l’esempio decisivo, che informa buona parte dell’Iliade è l’inazione, il non-fare di Achille che, da sola, determina l’intera evoluzione delle molte battaglie in campo.

UNA PAUSA, e una domanda, bloccano anche Oreste, nelle Coefore di Eschilo: il suo braccio resta sospeso prima di infiggere la lama nel petto della madre Clitemnestra, aprendo i versi al teatro di una mente che non può sfuggire a un destino inesorabile.
La seconda ragione a sostegno dell’idea che la poesia sia in sé lo spazio e il tempo dell’interruzione, e dunque idea centrale per il valore dell’inazione in letteratura, si sviluppa con altrettanta coerenza nel capitolo dedicato al ciclo bretone di re Artù, introdotto dalla riflessione portante sulla malinconia, che poggia le sue ragioni sui testi di Warburg, Panofsky e Saxl, Wittkower, il Benjamin del Dramma barocco tedesco, Barthes, Susan Sontag, ma anche sul cinema di Rohmer e il volto di Buster Keaton nella famosa fotografia di Joseph Frank. Tutto converge a illuminare il sonno di Artù, «roi pansif», che fermando ogni azione, terrorizza la sua corte, o l’assenza a se stesso, stupefacente, di Lancilotto nel ciclo del Lancelot-Graal, il cui filo di pensiero lo rende meditabondo e passivo, trasognato eppure capace di azioni improvvise che abbattono il suo avversario, in ragione di un’«energia statica» che si trasforma in «energia cinetica». Perceval, protagonista di Le conte du Graal, è un altro cavaliere immobile, addormentato o in dormivaglia sul suo cavallo, non agisce, non pone le domande giuste, sbaglia tutti i tempi, ma l’incompiutezza della sua azione, così come incompiuto sarà il conte, produrrà tutte le narrazioni seguenti.

MANCA ORA solo l’ultimo salto che porta alla rilettura critica che Virginia Woolf propone dell’Orlando ariosteo nel suo Orlando. Una biografia e di Perceval nelle Onde. Un capitolo ricco di tensione critica, sentiamo che questo è il punto non finale, ma originario dell’intero percorso che possiamo leggere ora a ritroso, perché questi due romanzi vivono della «memoria dell’eroe», qui il sonno e il tempo esistono come necessità narrative esplicite, non più miticamente alluse. L’ironico rovesciamento del Furioso che qui si addormenta, cambia sesso e attraversa d’un balzo i secoli, l’assenza nelle Onde di Percival che, non essendoci, orienta ogni parola dei personaggi, indicano che il tema della sospensione è giocato con massima consapevolezza dalla Woolf, consapevolezza prima di tutto del ritmo di una prosa che, tra dieci interludi e nove soliloqui, deve inseguire i movimenti della mente, e insieme dello scorrere della vita.
Così come Orlando non compie nessuna azione memorabile, ma si «dimostrerà sempre più incline alla malinconia, alla fantasticheria e al sonno profondo», così Percival non è certo un condottiero, viene disegnato con in testa un caschetto colonialista, su una cavalla «malridotta», eroi entrambi messi a fuoco da uno sguardo ironico, sarcastico, che rivoluzione l’intera tradizione di cui i loro eponimi erano simbolo.

A VINCERE SUI TEMI, sui personaggi stessi, non è però una «tesi» da dimostrare, ma la geniale intuizione che la sospensione, il ritmo, la pausa non stanno tra l’eroe e il mondo, tra azione e inazione, ma sono elementi connaturati a una scrittura che vuole sfuggire ai «generi» codificati. Una biografia fuori canone e un play-poem sono la forma che Woolf ha trovato per rallentare le scene, dilatarle o diminuirne la tensione, come e quando necessario alla narrazione stessa. È la vittoria ultima della poesia, da lei tanto amata, l’esito di questo lungo attraversamento della tradizione.