L’Unione europea va rovesciata come un guanto. Richiede «un cambiamento radicale». Necessita di «una trasformazione dell’intera economia europea». Insomma serve una rifondazione «non meno ambiziosa di quella che fecero i Padri Fondatori 70 anni fa con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio». Ma la sfida non è tutta qui. Bisogna anche correre a perdifiato perché «non possiamo permetterci il lusso di ritardare le risposte» e se c’è chi resiste bisognerà rassegnarsi a «procedere con un sottoinsieme di Stati membri». Parola di Mario Draghi che ieri, alla Conferenza europea sui diritti sociali organizzata dalla presidenza di turno belga della Ue a La Hulpe, a un tiro di schioppo da Bruxelles, ha offerto un assaggio del report sulla competitività che sta preparando su richiesta della presidente von der Leyen. Lo presenterà in forma compiuta il prossimo 27 giugno ma è già la terza volta che ne anticipa contenuti e senso. Lo aveva fatto di fronte ai ministri dell’Economia europea e poi di fronte ai rappresentanti dei gruppi parlamentari. Ogni volta ha alzato i toni e affondato la lama un po’ di più: segno evidente di quanto ci tenga a creare un’aspettativa molto alta intorno al suo report e a quello parallelo di Enrico Letta e dell’ex ministro Giovannini sul mercato comune europeo.

NON È QUESTIONE DI IDEALI, o almeno non solo. È questione di possibilità di competere con la Cina e gli Usa, dunque di sopravvivenza economica ma di conseguenza anche politica. Tra il gigante cinese e quello americano l’Europa al momento è candidata a rompersi il collo. Draghi è impietoso. La Cina «mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento di tecnologie verdi e avanzate e sta garantendo l’accesso alle risorse necessarie». Con Washington, se possibile, va anche peggio perché gli Usa «stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali, utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti, dispiegano il proprio potere geo-politico per ri-orientare e proteggere catene di approvvigionamento». L’Europa invece arranca e annaspa, va a rilento, sconta il limite che, se non superato in fretta, la condannerà: la divisione, la mancata integrazione su tutti i fronti, dallo sviluppo di energia verde alla difesa integrata, sino agli appalti comuni e agli investimenti sui beni pubblici. Equazione semplice ma difficilissima da risolvere: «I nostri rivali ci stanno precedendo perché possono agire come un unico Paese con un’unica strategia». L’Europa invece è in frammenti e lo ha dimostrato anche ieri: la Conferenza doveva concludersi con una dichiarazione comune. È stato impossibile per il pollice verso di Svezia e Austria.

UN PRONUNCIAMENTO come quello di ieri e come quello, ancora più fragoroso e circostanziato, che arriverà il 27 giugno, stride con l’immagine dell’uomo ritiratosi a vita privata per «fare solo il nonno» che l’ex presidente della Bce aveva accreditato al momento di lasciare palazzo Chigi. Se ce ne saranno gli estremi, cioè se l’Unione si dimostrerà permeabile alle indicazioni e alla rivoluzione proposta, inevitabilmente Draghi sarà in campo per un impegno diretto e un ruolo di leadership europea: presidente della Commissione oppure, più probabilmente, del Consiglio europeo. Le reazioni, per quel poco che valgono le parole, autorizzano l’ambizioso obiettivo. Ursula von der Leyen si allarga fino a garantire che «Draghi e Letta indicano la strada». Persino Orbán non si mette di mezzo: «Draghi mi piace. È una brava persona». Il presidente del Senato La Russa, alto dirigente dell’unico partito che si opponeva al governo Draghi, giubila: «Ha i titoli per ambire a ogni ruolo». Bonino, ovviamente la tifosa più accanita, passa direttamente a candidare l’ex premier a presidente del Consiglio europeo.

LA STRADA IN REALTÀ non è affatto in discesa. Prima di tutto perché, applausi a parte, in Europa pochi sono disposti a cambiare le cose con la drasticità che richiederebbe il progetto draghiano. Poi perché da sempre i capi di Stato puntano su presidenti della Commissione e del Consiglio deboli: Draghi, in una di quelle postazioni, sarebbe l’opposto.