Provando a riavvolgere il nastro del 2020 in cerca delle sue immagini ciò che rimane negli occhi è la loro assenza. Il 2020 è un anno senza immagini o meglio senza un immaginario nel quale la sua narrazione, che è sostanzialmente quella della pandemia, trovi una forma. Eppure le immagini non sono mancate, quelle dolorose dei morti e quelle della malattia coi medici e gli infermieri bardati e i pazienti intubati nelle rianimazioni mandate di seguito almeno sui media nostrani – così come le immagini «colpevolizzanti» durante il confinamento di runner o di bambini all’aperto, e dopo delle persone in strada, nei negozi, al bar, sulla spiaggia mai accompagnate però dalla considerazione che se quei luoghi sono aperti è normale che ci si vada.

E ancora, nel lockdown di marzo, le città deserte, i cori in finestra e sui balconi – «andrà tutto bene» che ormai non ci crede più nessuno. Ma a ripensarle o a riguardarle queste immagini non raccontano, piuttosto mostrano, ricordano, assumono la forma seduttiva di un archivio, – assecondando il desiderio di essersi lasciati tutto alle spalle – e lasciano in ombra le ambiguità, le contraddizioni, le inquietudini, i conflitti fino a provocare una pericolosa assuefazione. Chissà se in un futuro qualche archivista capace di leggere dietro alle apparenze ritrovandole non ne sappia tirare fuori il senso profondo? Che c’è, ci sarà, a dispetto dell’apparente assenza di una storia, e forse ci sfugge perché siamo troppo vicini, troppo coinvolti, anche nei tentativi migliori e più interessanti di film realizzati sull’urgenza.
C’è però qualcosa che ha connotato fortemente quest’anno nella sua rappresentazione: l’interno domestico. Nei mesi ci siamo abituati alle pareti di librerie, alle terrazze, ai poster, alle camerette dei piccoli e degli adolescenti, ai salotti degli opinionisti e via dicendo. È qui, nelle mura di casa che si è spostata la nostra percezione degli altri sul lavoro o nelle relazioni perché così ha imposto l’emergenza sanitaria- #restate a casa era la parola d’ordine, e lo è ancora: «a casa» chi ce l’ha con tutto ciò che comporta, l’essere in famiglia, insieme a persone conosciute, protetti, tagliando fuori l’altro, l’altrove divenuto minaccia – reciproca – in quanto possibile fonte di contagio.

E se nel passato l’immaginario – con molte varianti e variazioni e capolavori di genere – ha esplorato questa attitudine, l’imporsi dell’immagine «casalinga» nella politica, nella scuola, nel lavoro appare nuova allo stesso modo che la «smaterializzazione» delle relazioni, siano esse professionali che amicali, affidate al digitale, alle piazze sempre più incarognite dei social o ai vari Zoom e via dicendo per «sentirsi vicini». Ma vicini a cosa? A chi? Di questa smaterializzazione il corpo è il primo bersaglio: fa paura e va preservato – bizzarro binomio – e per entrambe le ragioni è messo «fuori campo» rimuovendo la sua sostanza, la sua materia, l’essere erotico, desiderante, spavaldo, sfacciato. Era già tutto lì? Era già accaduto? C’entra la «depurazione» dell’immaginario degli ultimi anni? O è qualcos’altro che ugualmente ci sfugge? Il secondo «target», conseguente, è lo spazio pubblico azzerato appunto in favore di quello domestico. Interno/esterno ma il bordo, la soglia sono da reinventare.

Tra i settori più colpiti da questa pandemia ci sono quelli che riguardano proprio l’immaginario, anzi il suo «consumo» inteso come esperienza collettiva: le sale cinematografiche, i teatri, i musei sono stati chiusi per primi, poi brevemente riaperti almeno in Italia e subito chiusi all’arrivo della «seconda ondata» – non ovunque ma nella maggior parte dei paesi europei. Sono davvero più pericolosi per il contagio di altri luoghi quali ristoranti, bar, centri commerciali e via dicendo o si tratta di questioni economiche, meno incidenza, mancanza di turismo (per i musei) ecc. ecc.? Accanto alle piattaforme già ben solide tipo Netflix ne sono spuntate molte altre, i festival si sono forzatamente spostati in rete e quella «ripartenza» che si sperava in Italia lo scorso settembre, ai tempi della Mostra di Venezia, non si è mai avverata. Purtroppo.
Di fatto però anche questo va a completare l’immagine di un presente formato «interno di famiglia» come si è velocemente configurato, in cui si cerca di spostare persino il teatro – archetipo per eccellenza dell’agorà. Si guardano film o spettacoli o mostre da soli, tra le pareti di casa, si seguono i festival da soli, lo scambio, l’incontro che è anche la ricchezza dell’immaginario, e la sua messa alla prova, vengono meno a fronte di un «esterno» la cui realtà è sempre meno esperienziale. Ma quali sono e saranno le conseguenze?
Abbiamo provato a mettere a fuoco alcuni passaggi, e anche alcuni possibili gesti di resistenza che vanno oltre lo specifico e interrogano – o almeno ci provano – il mondo senza cedere al silenzio che adesso pare obbligato. Perché il mondo è sempre lì nonostante tutto.