La lettura delle interviste, ma il più delle volte sono incontri alla pari tra una comunista «eretica» e protagonisti del movimento operaio e comunista, costringe a ripensare il lungo Novecento, un secolo aperto dalla speranza e dalla prospettiva di un cambiamento radicale e chiuso con la sconfitta di chi, in nome di quel cambiamento, ha fatto scelte di vita all’insegna di una militanza politica totalizzante (Quando si pensava in grande, Einaudi, pp. 241, euro 17,50) Non è certo un caso che Rossana Rossanda abbia privilegiato intellettuali, militanti e dirigenti non italiani, quasi a suggellare la fine di un’anomalia italiana, per molto tempo caratterizzata da un dualismo tra sviluppo capitalista intensivo e il permanere di caratteristiche ottocententesche che aveva fatto scrivere di una «maturità del comunismo» propedeutica a saltare quella fase di transizione, chiamata socialismo, dal capitalismo al «regno della libertà».

Gli italiani presenti in questo volume sono il sindacalista consiliarista Bruno Trentini; il dirigente del Pci Pietro Ingrao che ha appena assistito alla liquidazione del suo partito; il cattolico inquieto Giuseppe De Rita alle prese con una trasformazione sociale italiana ancora da indagare; il segretario della Cgil Sergio Cofferati attirato dalla prospettiva di costruire una sinistra riformista con connotati «socialisti»; Massimo D’Alema, ultima incarnazione di quell’autonomia del politico in salsa postsocialista allora in ascesa; il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti alle prese con un partito che non riesce a prendere una forma innovativa e distinta da quelle che l’hanno preceduta (il partito operaio a là Spd o quello leninista). Il tono dominante che emerge da questi incontri, nonostante Rossana Rossanda incalzi i suoi interlocutori, è di constatare che la fine del Novecento coincide con l’archiviazione dell’«ipotesi comunista».

Ma qual è l’ipotesi comunista che emerge da questa lunga carrellata di uomini incontrati tra gli anni Sessanta e la fine del Novecento? Superfluo ricordare la distanza di Rossana Rossanda dal «socialismo reale» (è stata per questo cacciata dal Pci, assieme al gruppo che darà vita al «manifesto», anche se con cristallina onestà intellettuale non omette mai di ricordare che quell’esperienza aveva visto coinvolti uomini e donne che, come lei, avevano scelto di essere comunista. Quel che interessa Rossana Rossanda era di dare forma politica a un’idea di rivoluzione, di trasformazione radicale a partire dall’imprevisto della Storia che è stato il Sessantotto.

Tutto, allora, diventava possibile. Tutto però diventava difficile. Era la facilità difficile a farsi annunciata da Bertolt Brecht. Il partito non è la forma organizzativa che può intercettare quegli «strani studenti» che hanno preso la parola nelle metropoli europee e statunitensi. Al suo posto, tuttavia, non ha preso piede nessun valido sostitutivo. Anche la classe operaia è cambiata. Non vuole solo più salario, ma chiede di esercitare il suo potere dentro la fabbrica e nella società. Per una comunista come Rossana Rossanda questo significa fare i conti con la critica dell’economia politica marxiana, senza però andare oltre Marx. Non a caso, viene ricordato un saggio, a suo modo programmatico, dal titolo «Da Marx a Marx». E programmatico è l’incontro con Louis Althusser, dove il filosofo francese, quasi in un monologo, evidenzia il fatto che l’opera marxiana più che aperta è «finita», intendendo con ciò che è va integrata laddove necessita.

Ma se il Sessantotto è lo spartiacque per una rinnovata teoria della rivoluzione, le pagine di questo libro sono attraversate dalla sconfitta di tale scommessa politica. È questa la parte più problematica, almeno per chi scrive, del volume. Certo il movimento operaio esce sconfitto dal lungo Novecento, ma ciò non significa che non sia possibile riprendere le fila di una prassi teorica e politica che «immaginava» un altro tipo di trasformazione radicale. La caduta del Muro di Berlino e l’implosione del socialismo reale sono entrambi uno spartiacque, anche se la controrivoluzione neoliberale si era già dispiegata a livello planetario. Da questo punto vista, l’Ottantanove è la ratifica di un passaggio di fase. In altri termini, il movimento operaio era già stato sconfitto. E con esso il Sessantotto. Il nodo da sciogliere allora non è quello della sconfitta, ma dal dove e dal come ripartire. Fuori dai denti: precondizione di tutto è innovare proprio quella critica dell’economia politica a cui Rossana Rossanda ha più volte invitato a tornare.

Il mondo uscito dall’Ottantanove non è però un deserto da attraversare, né una realtà a volte feroce che ha bisogno di una buona amministrazione della cosa pubblica (come emerge nelle parole di Giuseppe De Rita e Massimo D’Alema), ma un modo di produzione che ha visto ridisegnare i rapporti sociali di produzione sempre all’insegna del lavoro salariato. Mutate sono le figure del lavoro vivo, mutati sono i rapporti tra stato e economia, mutate sono infine le soggettività politiche. Anche qui, a scanso di equivoci: la scomparsa della sinistra non è da salutare come una vittoria, bensì un principio di realtà da cui partire che dovrebbe mettere al riparo dal riflesso pavloviano di guardare agli attuali partiti eredi della sinistra politica novecentesca – sia italiana che europea – come un contesto in grado di poter garantire un timido riformismo che contenga gli «spiriti animali» del capitalismo. Semmai sono parte integrante di un sistema politico funzionale al sistema di potere attuale.

Ovviamente, la citazione del sorgere e dell’eclissi dei movimenti sociali, le insorgenze sociali, financo le rivolte può essere facilmente deriso se messo a paragone con il lungo Novecento. Ma questa è la realtà in cui vivere e agire politicamente. Altre strade conducono in vicoli ciechi o nell’aderire al dominante spirito del tempo.

Il volume di Rossana Rossanda si chiude su questi nodi. È compito di un altro ordine del discorso scioglierli. A lei il merito di continuare a scavare.