Cinéma du Reel, il festival dedicato al documentario di Parigi ha chiuso ieri un’edizione che può festeggiare un ottimo risultato sia sul piano delle presenze – sale sempre molto affollate – che su quello coi professionisti del settore che i questi giorni si sono incontrati negli spazi festivalieri. È vero che l’appuntamento parigino è sempre stato un riferimento privilegiato per la «galassiaa» del documentario francese e non solo – dalle diverse istituzioni del «genere» alle sue figure di punta e agli organismi europei – ma ritrovare a fronte di una crisi del sistema cinema mondiale tutto questo era una scommessa. Il lavoro della direttrice artistica, Catherine Bizern è stato prezioso rimodulando la programmazione e l’Industry dei Paris Doc – dedicati ai progetti in progress dove gli autori hanno la possibilità di incontrare produttori, distributori, programmer di festival – al contesto attuale con grande inventiva e lucidità.

Le stesse linee hanno attraversato il palinsesto quest’anno unendo ai film numerose occasioni di incontro su temi specifici – pensiamo alla sezione L’Espace de la lutte nata intorno a una riflessione sullo spazio pubblico che a partire dall’esperienza del lockdown ha toccato diversi passaggi in cui è stata messa in atto una violenta o radicale «contrazione» della dimensione collettiva – tra i film Carlo Giuliani ragazzo (2002) di Francesca Comencini. Così la retrospettiva L’Africa documentaria, cifra politica e poetica dell’edizione dal manifesto a una presenza africana disseminata nell’intero programma, è stata un laboratorio di dieci giorni in cui più generazioni di registi e programmatori del continente hanno portato le loro esperienze e immaginari nel segno di un «cinema diretto» che si apre, si riposiziona, segue più piste, si capovolge nella finzione o nel cinema sperimentale.

CHE IMMAGINI sono dunque quella del Reel? Di conflitto al presente o nella memoria, politiche per come interrogano il mondo, lo spettatore e con essi la propria materia, che nello scontro con la realtà utilizzano il cinema, cercano una forma, riposizionano il loro soggetto – ne sono magnifici esempi film come Mutzenmacher di Ruth Beckermann o The United States of America di James Benning, il primo raffinatissima messa a nudo del maschile nel confronto con i fantasmi femminili, il secondo un racconto dell’America radicato nel suo paesaggio divenuto immaginario collettivo – entrambi nel concorso internazionale.

Lo è anche (nel concorso francese) Relaxe in cui l’autrice, Audrey Ginestet racconta l’«affaire Tarnac» facendo circolare la parola delle persone accusate tra la dimensione pubblica- il tribunale, la strumentalizzazione politica – e quella personale di ogni giorno. I fatti accadono nel 2008, quando un gruppo di ragazzi che in una fattoria di Tarnac, nel centro della Francia, aveva creato una comunità autorganizzata molto apprezzata dagli abitanti del luogo, è stato accusato di atti di sabotaggio lungo il tracciato ferroviario del Tgv- degli uncini in ferro agganciati alle linee elettriche avevano gettato nel caos l’intero traffico dell’alta velocità. I ragazzi di Tarnac vengono arrestati con l’accusa di terrorismo, e rilasciati perché non ci sono prove anche se le accuse rimangono in piedi – quella di terrorismo decade diversi anni dopo. La persecutrice più ostinata è l’allora ministra degli interni, Michèle Alliot-Marie, ma appunto le sue c «prove inconfutabili» vengono smentite in quello che appare presto come un processo alle idee, all’impegno politico, alle scelte antagoniste dei ragazzi.

Manon, una delle accusate, musicista e sorella del compagno della regista, guida questa narrazione, spiegando nei gesti quotidiani della sua esistenza cosa ha significato questo,lo stretto controllo nelle sua vita come in quella degli altri suoi compagni, i pedinamenti, i processi, a volte nuovi arresti. Intanto le realtà di ognuno sono cambiate, ci sono i figli, forse come si interroga una ragazza anche l’energia per lottare si è indebolita dopo oltre dieci anni.

COSA pagano? Il dissenso, la protesta, la scelta di una vita collettiva che provava a affermnaruna presenza sociale più forte perché non solitaria, che come tale fa paura. «Avere manifestato per i diritti dei migranti o contro le speculazioni sull’ambiente è la mia colpa» dice uno di loro sommando quei «frammenti» antagonisti che sono divenuti un dossier di accuse. Ginestet filma Manon coi bambini, mentre organizza una festa mascherata di compleanno, o quando va a trovare una amica più anziana che come tanti altri lì è dalla loro parte. La ascolta, raccoglie pensieri di oggi, i ricordi, ciò che è cambiato nelle relazioni con gli altri, l’ostinazione per nella sua battaglia per la giustizia.

È la democratica Francia ai tempi di Sarkozy e adesso – ma come sappiamo non è la sola. A questo ascolto si unisce la messinscena della difesa, giorno dopo giorno ,che nella casa altre donne stanno preparando insieme a Manon: ciascuno deve testimoniare, dire di sé, Manon leggerà una dichiarazione per rispondere di nuovo alle accuse. Altri davanti alla macchina da presa provano ancora una volta a dire il perché di alcune decisioni – rifiutare l’esame del dna – e cosa significa in una «democrazia» essere messi sotto processo per la propria vita. Una tensione profonda che il film coglie con delicatezza, senza retorica, nel flusso della vita.