Il termine «negazionismo» , espressione di un pensiero pigro che sta sostituendo il pensiero critico, è diventato uno strumento ideologico con cui si scomunica chiunque dissenti, a torto o a ragione, con una lettura maggioritaria della realtà o ha, più semplicemente, una difficoltà ad allinearsi. Usando arbitrariamente la definizione riservata alla minimizzazione dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, e facendo di tutta l’erba un fascio, si chiamano disinvoltamente «negazioniste» posizioni di significato diverso: rigettare il pericolo reale rappresentato dal Covid o l’efficacia dei vaccini, fregarsene del cambiamento climatico e della distruzione dell’ambiente, pensare che la terra sia piatta e non tonda. Volendo si potrebbe includere nel conto coloro che negano i loro tradimenti o la doppia natura di Cristo. È trattata come malattia dello spirito ogni forma di negazione dell’evidenza.

Il problema con l’evidenza è che ciò che è evidente per gli uni non è evidente per gli altri. Il tentativo di risolverlo con l’oggettivazione del dato evidente spesso non è fruttuoso, perché il fatto oggettivo ottenuto da una ricerca sperimentale o da un attento lavoro di osservazione è sempre dipendente da un’impostazione teorica e da un lavoro di interpretazione. Altrimenti si raccolgono dati che non parlano d’altro se non di se stessi. Viceversa le teorie che non accettano di essere interrogate dai dati che producono, o li realizzano a loro immagine e somiglianza, sono credenze, per quanto sofisticate possano essere. In altre parole può diventare evidente come fatto vero e condivisibile solo ciò che appartiene a un campo di legame critico, costruito sulla messa in discussione reciproca, dell’intuizione conoscitiva e della sua oggettivazione.

Proprio perché prodotta in un’area specifica del rapporto con la realtà, la verità scientifica (sia nel campo delle scienze naturali sia in quello delle scienze umane) non è direttamente accessibile per la maggior parte di noi. La sua accettazione collettiva richiede importanti mediazioni (valide anche per il rapporto tra le diverse categorie di scienziati) che sono interdipendenti.

La buona salute psichica collettiva (la curiosità nei confronti del modo di sentire e di pensare degli altri, l’amore per le prospettive inconsuete, la profondità erotica del legame con la vita, la possibilità di sedimentare, elaborare e ampliare lo spazio delle nostre emozioni, passioni e pensieri, facendone il motore e il senso del nostro agire) crea una cultura di condivisione delle esperienze e delle idee che rende la ricerca della verità parte della soddisfazione del vivere e la fa emergere come esigenza intima di ognuno di noi.

L’istruzione diffusa è fondamentale perché la ragione abbia la meglio sull’oscurantismo, ma è un errore grave coltivarla come sapere puramente tecnico: la acquisizione di una cultura «umanistica» è indispensabile per la formazione di un pensiero critico che accoglie, interrogandola, dentro di sé ogni forma di sapere specializzato (essere in grado di capire una legge della fisica o un teorema matematico non necessariamente significa che la loro verità scientifica sia assunta psichicamente, oltre che cognitivamente). La fiducia nelle istituzioni rappresentative della Polis fonda anche la fiducia dei cittadini nella scienza come valore comune. Un consenso per la scienza costruito esclusivamente sulle sue conquiste applicative è, invece, fragile come tutte le forme di adesione fideistica alla concretezza.

Gli anatemi contro i negazionisti (forma alla moda del “corretto pensare”) non hanno nulla di scientifico e mancano di buon senso. Chi rifiuta una verità scientifica ha perso la sua fiducia negli scienziati. Può ritrovarsi prigioniero di un’adesione acritica a idee mistificanti. Siccome il fenomeno è abbastanza presente, conviene che ci interroghiamo sulle sue cause piuttosto che indignarci.