Cominciamo da Expo, e non è un’ossessione. Perché il Festival del cinema africano d’Asia e America latina (a Milano fino al 10 maggio, dirigono Annamaria Gallone e Alessandra Speciale) che in Italia è stato tra i primi a portare il cinema africano e a farlo circolare venticinque anni fa, da Expo ha rischiato di essere travolto. Forse anche perché il rapporto tra la retorica del «nutriamo il pianeta» e l’Africa deve continuare a essere bimbi affamati con gli occhi sporgenti, pietismo (a nostro vantaggio) prima che lucida visione politica. Difatti tutti quelli che (artisti, intellettuali, politici) hanno provato a ribaltare questa rappresentazione del continente attraverso un immaginario alla prima persona sono stati messi all’indice come pericolosi sovversivi.

Expo ha fatto saltare il già falcidiato budget (anche dai tagli ministeriali) del Festival africano con l’aumento dei costi (viaggi, hotel ecc) senza prevedere al suo interno una presenza «forte» né per questo festival né per altre realtà cittadine (dovrà affrontare gli stessi costi il Mix, il festival gay lesbico transgender) che fanno cultura nel quotidiano contro i luoghi comuni sul Pianeta.

Non solo. Quest’anno il Burkina Faso dove è nato il primo grande Festival dell’Africa subsahariana, il Fespaco di Ouagadougou, si è rivoltato a Compaorè il dittatore che aveva eliminato Thomas Sankara, innovatore radicale, leader panafricanista, che combatteva corruzione interna, ricatto del debito internazionale e consapevole del potere rivoluzionario degli immaginari aveva fondato il festival. Tra l’altro proprio al Fespaco Sissako, che è il presidente della giuria al Festival africano milanese, ha presentato Timbuktu grazie all’intervento dell’attuale presidente burkinabé Michel Kafando, che alla censura «preventiva» – per paura di attentati islamisti – ha opposto il diritto del pubblico di vederlo. Anche questa è un bella sinergia possibile.

Inaugurazione con Taxi di Jafar Panahi, appassionante lezione di cinema politico, in gara arriva The Storm Makers: ceux qui amènent la tempête firmato da Guillaume Saun, un racconto di «ordinaria schiavitù» nella Cambogia oggi, che potrebbe essere qualsiasi altra parte del mondo, prodotto da Rithy Pahn che da anni lavora sulla costruzione – con scuole di cinema – di un immaginario glocal cambogiano. E di sfruttamento dei suoi concittadini nell’era della globalizzazione e dei mercati asiatici lo stesso Rithy Pahn ha parlato diverse volte – pensiamo a un film come Le papier ne peut pas envelopper la braise. Con Saun scopriamo che il traffico di esseri umani, segno del nostro contemporaneo prospera con la complicità delle autorità locali.

I genitori nei villaggi poverissimi e analfabeti spediscono le figlie giovani, ragazzine minorenni in Malesia o in Thailandia con l’illusione – della cui trappola sono tutti consapevoli – di guadagni in patria impossibili. «I portatori di tempesta» del titolo sono gli emissari delle agenzie (interessante variazione del modello interinale) che mettono in mano alle madri un migliaio di dollari con cui mangiare, sanare i debiti tirare avanti fino al prossimo figlio da vendere. Lì invece per chi arriva è l’inferno: botte, stupri, violenze, una condizione di schiavitù. Le ragazze sono prigioniere dei padroni che ne dispongono a loro piacimento, i racconti della giovane protagonista sono da incubo. Lei che almeno è tornata indietro viva, ha un figlio nato dallo stupro e viene additata dal villaggio, e dalla stessa madre che comunque si sente responsabile. «Sono sempre i trafficanti e i ricchi che vincono» commenta la ragazza amara.

Il trafficante, boss dell’agenzia di reclutamento, non si nasconde: si mostra alla macchina da persa al lavoro, spiega le tattiche come convincere i genitori, sempre i soldi, meglio se subito per loro è una somma bassa, che nei guadagni viene decuplicata. Quello che è interessante è questa opposizione senza rivolta: la trama di corruzione e complicità da una parte, la rassegnazione quasi assuefatta dall’altra. Saun mantiene una distanza nell’avvicinarsi con delicatezza ai suoi personaggi. Non è facile trovare l’equilibrio, e soprattutto uscire dalla logica della vittima, che serve solo a tranquillizzare. Il film al contrario ci rende testimoni. Il resto tocca a noi.