I commenti che si sono susseguiti in questi giorni, dopo la decisione dell’Aie di spostare il Salone del Libro da Torino a Milano, consentono di chiarire come non si tratti di una pura preferenza geografica ma di merito, sia politico che gestionale con delle enormi ricadute economiche. Quando il consiglio dell’associazione italiana editori, che come da statuto prevede un meccanismo di rappresentanza e quindi di legittima votazione, si è riunito non ci si poteva aspettare che una decisione così importante venisse presa senza una consultazione assembleare e approfondita di tutti i soci. Proprio nell’assemblea nazionale di giugno alle domande di chiarimento da parte di alcuni soci rispetto le voci insistenti sul possibile passaggio, i vertici dell’Aie avevano minimizzato.

Il secco No, grazie da parte della casa editrice e/o che non solo ha votato contro allo strappo con Torino ma che si è dimessa immediatamente dall’Aie è stato poi seguito da altri editori. Tutti indipendenti e preoccupati per la unilateralità della scelta. «E anche dai toni utilizzati, irricevibili e di una certa brutalità», come precisa Andrea Gessner delle edizioni nottetempo che insieme ad altri – tra cui Iperborea, Nutrimenti, Lindau etc – ha inviato giovedì un comunicato per dimettersi dall’Aie. «Oltre alla mancanza di garbo istituzionale – aggiunge Gessner – nei confronti per esempio di una nuova amministrazione insediatasi solo di recente e a cui non si può certo attribuire la responsabilità di quanto accaduto». È verosimile che la decisione di abbandonare il Lingotto per andare a occupare gli spazi di Expo appartenga invece a un processo più lungo. Almeno da un anno, secondo Gessner, quando cioè l’Aie abbandonò il consiglio della Fondazione per il libro con l’accusa di non essere stata ascoltata in merito a una gestione quantomeno discutibile. Ed è chiaro come interne alla Fondazione vi fossero delle questioni più che spinose da risolvere, la cosa difficile da accettare è che per ripensare e interrogarsi su una «macchina» perfettibile si sia creduto di smantellarne definitivamente anche le sue pratiche virtuose – comprese le relazioni con gli editori che hanno sempre sostenuto l’Aie.

«Il Salone del libro – dice il direttore di nottetempo – non può essere rubricato come un evento meramente commerciale. In questi lunghi anni è stato invece prezioso contenitore non solo dei cataloghi editoriali ma della possibilità di incontrare lettori e lettrici che hanno potuto vedere il dietro le quinte di ciò che accade intorno al libro. Non è poco».

Per Pietro Biancardi di Iperborea, le dimissioni dall’Aie non segnalano la contrarietà a una nuova fiera del libro bensì alla nascita di un evento che entra di fatto in conflitto con altri già esistenti. La concentrazione di eventi milanesi legati all’editoria, se moltiplica le opportunità, rischia di diventare un ingolfo se non si condividono tempi, modi e progetti. La discussione riguarda quindi anche le altre realtà nate nel territorio milanese; non più tardi di lunedì si riunirà per esempio Odei per stabilire che fare riguardo Bookpride. Ma anche la fiera Bellissima, che ha inaugurato solo quest’anno la propria presenza scegliendo ugualmente Milano, si misurerà con quanto sembra essere una fisionomia in mutazione. Per non parlare di Bookcity e le storiche Milanesiana e I boreali.

«È chiaro – dice Biancardi – che oltre Torino, questo nuovo evento pensato per maggio sarebbe talmente ravvicinato al Bookpride di aprile da suscitare più di una perplessità». Certo è evidente la disparità di peso dei gruppi editoriali interni all’Aie che, sarà appena il caso di ricordare, non danno l’intero del panorama editoriale italiano ma che ne rappresentano una parte consistente. Biancardi ricorda che, nonostante il legittimo statuto e alcune iniziative lodevoli in questi anni, la stessa disparità si è avvertita nitidamente anche riguardo la vicenda legata alla legge Levi in cui il parere dei «più piccoli» è stato bellamente surclassato da quello dei grandi fatturati. E ciò non perché essere piccoli editori tenga in salvo dalla scarsa qualità o sia sinonimo di saggezza ma perché «davanti a spaccature simili, non si è tenuto minimamente allora in conto, e non lo si è fatto neppure ora, di consultare e ascoltare i soci».

Se tutte le motivazioni sottese alle critiche sono più che ragionevoli, secondo Sandro Ferri di e/o, che insieme a Sandra Ozzola ha assunto una posizione netta e tempestiva uscendo subito con un comunicato, ciò che emerge è «la subalternità dell’associazione alle strategie dei grandi gruppi editoriali».

E se la manifestazione torinese sarà da ricostruire, come è emerso dai propositi sia del ministero che della amministrazione comunale e regionale, la casa editrice romana dichiara già la propria partecipazione e, dovendo scegliere tra due eventi quasi in contemporanea, preferirà il Lingotto.

«Noi – prosegue Ferri – inquadriamo questa decisione da parte dell’Aie all’interno di processi più ampi che stanno avvenendo all’interno dell’editoria italiana e che stanno cambiando diverse cose, nonostante ciò non venga poi così immediatamente percepito. Intanto il blocco Mondadori-Rizzoli che copre il 30 per centro del mercato, nonostante l’intervento dell’antitrust che ha obbligato a cedere alcuni marchi. Si aggiunga che le librerie Mondadori sono più di 600 sparse in tutto il territorio nazionale. L’altro grande processo di acquisizione è poi quello che Messaggerie ha fatto con il gruppo Pde creando di fatto un monopolio della distribuzione; certo, ci sono ancora margini che consentono anche agli indipendenti di sopravvivere ma quello che detta la macchina dei grandi gruppi mette in difficoltà anzitutto le piccole sigle».

E se ci si dovrebbe interrogare rispetto la percezione da parte di lettori e lettrici di questi conflitti, secondo Ferri «al netto della informazione manchevole rispetto i dettagli, a chi frequenta questi luoghi, che ama i libri e conosce il significato che ha assunto il Salone del libro di Torino, basta leggere le dichiarazioni dei rappresentanti della fiera di Milano per accorgersi che tipo di interlocuzione si stia configurando: si capisce bene infatti che sono persone che gestiscono fiere economiche di diverso tipo e che non hanno nessuna idea di che cosa siano i libri, semplicemente sono saltate sull’opportunità di occuparsi anche di questa. Sono questioni di potere, cioè insieme al mercato e alla grande quantità di librerie si vuole acquisire anche un Salone del libro. Insomma i campanilismi non sono il punto, a confrontarsi sono piuttosto due progetti con due visioni distinte».