Nel suo Naufragio con spettatore, Hans Blumenberg parte dalla nota scena lucreziana che appare nel secondo libro del De rerum natura e analizza lo svolgersi della metafora del naufragio, paradigma dell’esistenza, in alcuni luoghi del pensiero occidentale. Ad altre latitudini il naufragio non ha bisogno di metafore per essere compreso; significa già e drammaticamente morte, guerra, olocausti sempre più vicini alle nostre serene sponde. E se ora gli spettatori lucreziani, salvi allo stesso modo, sono stati catturati da smartphone e social-media che mostrano ancora più distante la sciagura, sulla zattera sgangherata di sopravvivenza siamo imbarcati tutti, Vous êtes embarqué scriveva Pascal. E aveva ragione nella misura in cui sfondare la parete che separa significa essere coinvolti in quel rischio, affinché dalla pura e disincarnata contemplazione si arrivi al piano etico e a un materialismo capace di raccontare il presente.

Anche il piccolo libro di Michela Murgia, Futuro interiore (Einaudi, pp. 84, euro 12), si apre all’insegna del naufragio, in questo caso nella sua accezione sociale. Consapevole di raccontarne i bordi da una posizione che le è propria, cioè di scrittrice e intellettuale che in più di un’occasione ha mostrato intelligenza politica di lettura, Murgia convoca il naufragio a cui assistono – spesso loro malgrado – le generazioni di donne e uomini fra i quaranta e i cinquant’anni. Quindi sottrae al «paradigma dell’esistenza» il carattere che lo legherebbe alla condizione umana per situarlo con precisione. Non comincia però con un dato di esperienza diretta, bensì affidandosi a un titolo evocativo che la colloca in uno spazio teorico e pratico preciso: quello di un buco storico che, dopo gli anni Settanta, non è riuscito a chiarire che tipo di eredità sarebbe toccata in sorte a chi è restato.

I soggetti di questo fallito risarcimento sono presto descritti: «Esiliati dalle ideologie e arrivati ai linguaggi digitali come si arriva da adulti a una lingua straniera, i quaranta-cinquantenni hanno mancato il tempo di ogni rivoluzione e lo sanno (…) Sono troppo giovani per considerare chiusa la partita e troppo vecchi per giocarsela ancora a pieno fiato, ma hanno in fondo le stesse urgenze primarie dei naufraghi del paradiso paasilinniano: sopravvivere e restare visibili». Eppure, se Arto Paasilinna in Prigionieri del paradiso immaginava una futuribile isola deserta in cui inaugurare una nuova organizzazione sociale, chi oggi è nell’età di mezzo indicata da Murgia ha una complessità da decifrare che non può prevedere alcun tipo di azzeramento né di sospensione di giudizio.

«Usciamo dal presente per piombare in un futuro sconosciuto, ma senza dimenticare il passato, la nostra anima è incrostata a sedimenti secolari e le radici sono più estese dei rami che vedono la luce». Quando Maria Zambrano scrive queste poche righe le sue non sono solo Le parole del ritorno ma una «visione di mondo» in cui, al di là del dilagare delle radici che vanno a trafiggere ciò che avanza nostro malgrado, dei rami – senza di esse – non si avrebbe traccia alcuna. Il punto di drammaticità in tutto questo non è allora il fatto di aver mancato il tempo di ogni rivoluzione, quanto del desiderarsi fondativi di qualcosa a furia di diserbante.

Il futuro interiore di Michela Murgia, dove l’interiorità è il contrappunto di un’anima per l’appunto trafitta, non è comunque privo di gratitudine, come accade invece quando si ascolta l’abbrivio di alcune roboanti retoriche della rottamazione in cui, alla fine, ci si scopre ancor più disintegrati di come la vita non faccia già di suo. L’interiorità di cui racconta Murgia è piuttosto l’anomalia stessa del presente che, per sua stessa ammissione, lei indaga a partire da tre temi che negli ultimi anni l’hanno sollecitata: identità, bellezza e potere insieme al darsi una possibilità di «sognare» ancora il futuro.

Sul piano dell’identità, il ragionamento che viene consegnato è in linea con quanto sta accadendo in Europa, ius sanguinis e ius soli hanno previsto schemi ideologici che li hanno strutturati negli stessi sistemi asfissianti che li sostengono.
L’Europa, per Murgia, potrà essere al massimo multietnica ma non multiculturale giacché è proprio il carattere monolitico dell’idea di identità a fondarne la struttura. O meglio a essere brandita nella sua forma statica là dove si chiede adeguamento a chi vi aderisce quando non salvaguardia delle sue origini. «Accettare che a definire l’appartenenza originaria di qualcuno siano il sangue e il suolo non equivale a riconoscere che le occasionali condizioni di nascita siano un destino a cui sottrarsi non è consentito, se non a un prezzo di un grandissimo sforzo personale che solo in pochi saranno poi in grado di compiere?».

Se il diritto del sangue, così enunciato, sta alla base di modelli patriarcali e apre a una eredità che, al pari di un patrimonio, si fonda sulle idee di razza e di famiglia intese come appartenenze inaggirabili, bisogna dire con altrettanta chiarezza che di quel sangue che ha imbrattato secoli di storia – non solo europea – andrebbero sottolineate le disfunzionalità e non la necessità di una cittadinanza fondata socialmente attraverso la rivendicazione dei propri «genitori cittadini». Altro discorso merita invece lo ius soli che invece per Murgia è un’ulteriore modalità per stabilire dettati imperialisti. La cittadinanza dovrebbe spostarsi verso un ancora inesistente ius voluntatis, a una scelta di appartenenza, là dove viene fatto l’esempio del Canada e del suo melting pot.

In tutto questo discorso, dove «la bellezza è una questione politica» e dove all’abbandono di un progetto estetico si finisce nelle mani di governanti che scambiano i tentativi di invenzione come disordine da reprimere, il «noi» che Michela Murgia utilizza con molta sicurezza non è costruito ma si ritrova. Al pari di un a-priori tuttavia viene sì individuato come condizione di pensabilità e agire ma di fatto configura solo ciò che si ritrova. È l’unico noi che ci si può permettere, quello del «noi cittadini» che non è poco ma non per questo è sufficiente. Un riconoscimento comprato a saldi che svuotato dal suo tenore teorico, teoretico e di materialità imprevedibile dei corpi può forse soddisfare una mancanza relazionale strutturale? Il «noi cittadino», di rilievo politico, è allora un voltarsi a osservare chi ci gravita attorno – in un gravitare neutro però, senza differenza, disincarnato – che racconta l’intempestività di questo presente che vorrebbe serbare un’idea di futuro. Da qui il baratro per chi a quaranta-cinquant’anni deve governare evenienze più che l’interezza di un progetto, un tempo sinonimo della stessa esistenza.

Un cortocircuito singolare, a ben pensarci: da una parte c’è la misura di ciò che ci si può permettere, anche se poca cosa, dall’altra c’è l’arrogarsi di una visibilità che i tecno-spettatori non baratterebbero mai per niente al mondo. Non solo per il godimento delle altrui sventure ma anche per la celebrazione della propria collettiva impotenza. Anche su questo punto il libro di Michela Murgia riesce a cogliere una temperie caratterizzata da uno svuotamento che non ha niente di generazionale ma tutto di politico.