Arriva Romaeuropa, uno dei festival italiani più ricchi e «ufficiali», nonché affollati, dei cartelloni italiani, che ha giustamente sparato in apertura il suo titolo più prezioso e prestigioso, 887 di Robert Lepage (ancora stasera all’Argentina). L’artista canadese è uno dei massimi nomi mondiali della scena, regista di cinema e di lirica oltre che di teatro, e sul palcoscenico artefice di narrazioni tanto complesse quanto appaganti per lo spettatore. Sia che appaia da solo, e moltiplichi immagini e immaginari con il ricorso alle tecnologie più mirabili e avanzate, sia che grazie ai suoi fedelissimi attori della Caserme (l’antica caserma dei pompieri di Quebec), raccolti nella sua compagnia (dal nome rivelatore Ex Machina), riesca ad articolare racconti, suggestioni e interrogativi che con naturalezza sfiorano il kolossal, pur fuggendone sempre la banalità.
Perché per Lepage, già il «contenuto» è una scelta distintiva: può essere una favola alla Andersen o un classico di Shakespeare (l’attore al trucco in camerino che si prepara a essere Amleto) , o un giallo alla Hitchcock tra nuovo mondo e Europa prima della caduta dei muri, o un confronto intellettuale senza scampo tra scienze esatte e arte, o tra architettura e scienze umane, geometria dei miracoli tra Wright e Gurdjeff, o addirittura l’indagine tra gigantesche torri in Zulu Time su elaborazione e pratica del terrorismo aereo.

Senza dimenticare le autobiografiche contraddizioni e responsabilità della compagnia teatrale americana arrivata dalle parti di Hiroshima. Argomenti diversissimi e di diverso peso, ma che in ogni caso riguarderanno il pubblico molto da vicino. Lepage sa come coinvolgere e appassionare ogni spettatore, attraverso il piacere dell’artificio, ma anche penetrando dentro la psiche e il cuore di ognuno. Il suo teatro, il più tecnologicamente avanzato al mondo, che ormai a vista mostra il potere visionario di gps e telefonini,, ristabilisce e ossigena gli antichi fondamenti e le più profonde radici di questo linguaggio millenario.
E accade così anche in questa sua ultima creazione, che pure rispetto a tante altre storie di autobiografia collettiva, entra direttamente nel privato dell’autore, nella storia della sua famiglia, della sua infanzia e formazione, partendo proprio dai suoi problemi odierni di attore, che deve mandare a memoria un poetico testo sulla emancipazione politica, appunto. E bisogna riconoscergli la capacità mirabolante di appropriarsi dell’italiano, lingua che fino a poco tempo fa non conosceva, mentre oggi conduce egregiamente il suo racconto.
Un racconto che è letteralmente quello di casa sua, se il titolo 887 è il numero civico della abitazione familiare in cui è cresciuto, in rue Murray nella città di Québec. Una città che storicamente è stata culla e capitale del Canada francofono, che inutilmente la Gran Bretagna cercò di sopraffare e azzerare per imporre il suo dominio coloniale. Lo testimoniano ancora oggi la topografia e le citazioni che circondano quella casa, il condominio dove Lepage è cresciuto, e che contemporaneamente alle sue parole si illumina grazie a piccole proiezioni animate nelle finestre dei suoi appartamenti, in cui si muovono gli abitanti con i loro piccoli tic e pettegolezzi, che pure danno spessore a quelle piccole ombre.

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Alle loro spalle del resto si erge la Storia, ovvero la lunga battaglia per l’irredentismo della comunità francofona che è riuscita a mantenere la sua autonomia e la sua cultura (a cominciare dalla propria lingua!) in uno stato che per quanto federale è ancora parte del Commonwealth. E a capo ha la regina d’Inghilterra!
L’infanzia di Lepage ha coinciso quindi con quei movimenti autonomistici, con quelle proteste e quegli scontri.

Nello stesso condominio di rue Murray 887 un filo di diffidenza divideva i francofoni dagli anglosassoni. Oltre naturalmente ai problemi e alle beghe che possono affliggere qualsiasi famiglia: di casa Lepage abbiamo modo di vedere così il fascinoso padre operaio, la madre faccenduosamente alcolica, fratelli e sorelle, perfino la nonna malata di Alzheimer. Eppure quelle piccole vicende infradomestiche si combinano perfettamente con quanto avviene fuori, nelle piazze della protesta come nei comizi del presidente De Gaulle. La stessa macchina scenica, vero cubo magico, ruotando con le sue pareti offre la possibilità di prospettive infinite, di ricostruzioni visive, di processi della memoria che procedono anche sull’orecchio della nostalgia.

Un famoso hit degli anni 60, Bang bang, mostra il suo percorso di emancipazione politica scorrendo negli anni dalla voce nervosa di Nancy Sinatra a quella calda e fonda di Dalida, una in inglese e l’altra in francese, naturalmente.

Come tutte le favole, anche questa saga familiare ha una conclusione morale: l’attore Lepage ha scavato nella propria memoria privata per arrivare a tenere a mente un proclama poetico che altrimenti sarebbe stato stilisticamente ben fuori delle sue corde, Speak White. Un parlar chiaro che si fa poetica e politica, oltre che pedagogia degli strumenti da usare. Anche se la vera «strumentazione» è quella strepitosa delle tecnologie usate, una lanterna magica del futuro che continuamente dà corpo alle parole dell’attore (assieme alla decina di macchinisti che appaiono alla fine, dopo aver dato vita al racconto nell’oscurità), mentre si allontana soddisfatta anche l’auto del padre tassista che ripetutamente ha reso viva la skyline di Québec.