Ci sono libri in cui il titolo non mente. Per esempio, l’ultimo di Martin Amis, con un unico personaggio accentratore, Lionel Asbo. Stato dell’Inghilterra (Einaudi «Supercoralli», traduzione di Federica Aceto, pp. 320, euro 20,00). Ed è un protagonista dilagante che diventa da subito sintomo delle storture di un’epoca intera, portando con sé i segni di quel marciume inesorabile diagnosticato dallo scrittore inglese al suo paese, che ha abbandonato per stabilirsi a New York. Lo stato delle cose attuale si incarna nella figura di un piccolo criminale becero e rissaiolo, che detiene con orgoglio il record del primo arresto a tre anni di età, brutalizza la lingua di Shakespeare ogni volta che dà fiato alla bocca, nutre a tabasco i suoi due pitbull «psicopatici» e ha un lavoro misterioso che ha a che fare un po’ con «la parte più rognosa del recupero crediti» e un po’ con la ricettazione.

Di più: in un empito rivoluzionario ha cambiato il suo vero cognome, Pepperdine, in Asbo, acronimo di una misura restrittiva con cui è in discreta intimità (Anti Social Behaviour Order). Quando vince una somma colossale alla lotteria si trasforma nel Coatto Milionario, beniamino assoluto dei tabloid a caccia di vip.
La satira è solo la scintilla iniziale di questo romanzo che si vuole eccessivo, tracimante, dipingendo con colori esasperati e grotteschi una realtà che promette di rendersi presto più esasperata e grottesca di lui; perché Lionel Asbo è lo specchio di quell’idolatria del pessimo soggetto che permea gran parte del teatro mediatico odierno, contagiando in maniera anche subdola la mentalità collettiva, i modi di vita e di pensiero. Tutto appare imprevedibile, ma in realtà tutto segue una sua «logica distonica».

L’assunzione immeritata del ventiquattrenne Lionel all’empireo della fama è una «spaccatura nell’ordine naturale delle cose» che controbilancia un’altra dismisura: il fatto che il nipote Desmond, detto Des, figlio di una sua sorella morta, a quindici anni ha fatto sesso con sua nonna Grace (madre di Lionel e di altri sei figli da sei padri diversi), che di anni ne aveva addirittura trentanove. Ed era già considerata decrepita nel cosmo degradato di Diston Town, sobborgo londinese non troppo immaginario con «la stessa densità di popolazione di San Paolo del Brasile o Bangkok», dove «ogni cosa odiava qualsiasi altra cosa, e qualsiasi altra cosa odiava ogni cosa».
Come c’era da attendersi, il denaro dà a Lionel, tra le altre, una libertà inattesa: quella di sentirsi intelligente. Si balocca con l’idea di essere un grande imprenditore, di avercela fatta con il duro lavoro, e culla una sua personalissima visione della lotta di classe; fantastica di dettare la propria autobiografia e quando Des gli dice che intende sposarsi con la sua fidanzata Dawn non lo ascolta, perché intanto è impegnato ad attaccare lo yen con un codazzo di consulenti finanziari. Per fortuna ignora l’incesto tra sua madre e il nipote. Quando lo informano che un altro ragazzino, Rory Nightingale, ha frequenti congressi carnali con Grace, la vendetta è rapida quanto spietata: il quattordicenne sparisce e non se ne sa più nulla.

Se pure possiamo qualcosa contro l’intelligenza, siamo purtroppo impotenti contro la stupidità. È qui la chiave di volta di una trama che oscilla tra la spassosa, debordante propensione di Lionel al peggio («Per me è una questione di principio. Mai imparare») e all’altro estremo il personaggio di Des, voce alquanto sorprendente sotto la penna di Amis: un caldo controcanto domestico, il suo, che parla di responsabilità, impegno, riscatto inseguito da un giovane uomo attraverso l’istruzione. Per lo zio, naturalmente, è tutto più semplice: Des «fa l’infame», anche perché ha iniziato a lavorare nella redazione di cronaca nera di uno di quei malefici tabloid.
In realtà Lionel è uno che nella sua epopea sbilenca non ha un posto che senta davvero suo; non gli interessa sentirsi a casa, perché «ha già dato»; magari in carcere sì, perché è il posto ideale «per schiarirsi un po’ le idee», là «sai sempre dove sei» e almeno «non c’hai la preoccupazione di essere arrestato».

Non si sente a suo agio nella nuova vita di straricco famoso per non aver fatto nulla. In confronto alla leggerezza di Diston, dove «niente aveva peso, niente aveva importanza e tutto era permesso», il nuovo mondo è composto di oggetti pesanti, corposi, lustri in una maniera distante e minacciosa, e là non serve più ostentare forza e aggressività. Tra una cena più disastrosa dell’altra in raffinati ristoranti, perennemente sbronzo di champagne versato a bella posta in bicchieri da birra, Lionel può persino pensare di voler meritare l’amore del pubblico, dandosi in pasto al circo dei tabloid, sciorinando interviste in una magione ridicolmente pacchiana e confezionandosi addosso una plasticosa storia d’amore con una supermodella.

Ma come i suoi amati pitbull non può deporre la rabbia: è per questo che sta al mondo, per aggredire: «quel punto interrogativo che aveva dentro, simile a un uncino arrugginito, non era scomparso, anzi, gli si era impigliato nelle viscere». Infine questo facinoroso, manesco stupido orgoglioso della propria stupidità può persino arrivare a conquistarsi una simpatia tutt’altro che ovvia, da quel tenero barbaro che pare essere; e malgrado le sue imprese assurde non ci ripugna totalmente.

Se scrivere, per Martin Amis, è sempre una guerra ai cliché (come suona il titolo di una sua raccolta di interventi critici), quali dinamiche intervengono allora a addomesticare la forza di denuncia che pure è uno degli assi portanti del romanzo? Interessato non tanto alla satira quanto all’ironia, quindi senza un frame morale in cui inquadrare preventivamente il suo obiettivo comico, Amis ultimamente insiste sull’amore – invece che sulla collera – quale motore della scrittura. Amore di un’Inghilterra di cui Lionel diventa un simbolo nazionale, con «quel tipo di cocciutaggine tipicamente inglese di chi continua a sperare nonostante le speranze siano state pesantemente compromesse»? O di un protagonista che dopotutto è parente del Keith Talent di London Fields o del John Self di Money ma non ne ha la debosciata grandezza?

L’unico personaggio che qui ama veramente, perché sa che deve imparare ad amare ogni giorno la moglie e la figlioletta, è il gentile Des. E dopo una carrellata di eccessi monopolizzata da Lionel, in cui l’efferatezza pare persino mite e l’aberrante diventa stranamente plausibile, solo nella terza parte il tono drammatico – pertanto morale in sé – ha il sopravvento. Qualcuno ha scatenato i cani della vendetta: Des ha rischiato qualcosa di peggiore della morte. La resa dei conti sarà agghiacciante, e consentirà alla logica di riprendersi i suoi diritti.

La traduzione di Federica Aceto si plasma con energia sui volubili toni della scrittura, dalla beceraggine di Lionel alla tenerezza ansiosa della paternità di Des, che serve a far risaltare la figura strampalata del protagonista. Si sa che la felicità scrive con inchiostro invisibile, ma è anche vero che un’insospettata e ben vivida dolcezza si stende ora sulla pagina di Amis, più posata rispetto ai furori ultrasaturi degli anni Ottanta, eppure non priva di affondi ancora memorabili. Di contro, sul versante cupo della scrittura, si sentono le «correnti ascensionali» del condominio fatiscente di Avalon Tower, «dense e pesanti e il fiato vecchio si accumulava e saliva su per i trentadue piani»; Diston, «con il suo canale ruttante e magmatico, i bassi tralicci sfrigolanti, i rifiuti sibilanti», è «un mondo in corsivo pieno di punti esclamativi», «un posto dove le calamità passavano di casa in casa come il postino». E anche se «le nuvole si stavano risistemando e formulavano grigi quesiti», un finale in tonalità imprevedibilmente maggiore allontana le angosce e stabilisce, se non una certezza, almeno una promessa di pace.