Promossa a Teatro della Toscana (rango «nazionale», capofila la fiorentina Pergola) Pontedera si allinea, sfrutta le nuove opportunità e sull’antico ceppo della ricerca innesta profili più tradizionali. Istituzionali, da vecchio Stabile. Così ci è parso il Lear, solo il nome, niente corona, che l’altra sera ha debuttato nella sala grande del teatro Era (ancora domani, ultima replica alle 16.30) e che a ottobre sarà in Polonia, nel cartellone di «Wroclaw, Capitale Europea della Cultura 2016».

Il regista Roberto Bacci, pure in veste di drammaturgo affiancato dal fedelissimo Stefano Geraci (hanno già fatto il Giardino di Cechov e stanno preparando un Don Giovanni, sempre in collaborazione col rumeno Teatro di Cluj), lavora su una terra desolata, il vuoto e il delirio dei personaggi scespiriani, la follia di Lear e la saggezza del Matto, fra rivoli di ingratitudine, ondate di dolore, morte e crudeltà, carichi di desiderio, sesso e tradimento, una tavolozza che è poi la nostra vita («non è, dunque, l’uomo altro che questo?», dirà Lear) quando, abbandonate le maschere dell’ipocrisia, le regole della convenienza sociale, i legami della convivenza familiare, ci ritroviamo a fare i conti con la debolezza della carne e l’ambizione degli istinti.

Ma lo stesso, suggerisce Bacci, la stessa disperata frenesia, vale per il teatro, ieri come oggi, supremo regno della finzione e della contraffazione. Così a depistare non è tanto il fatto che Lear diventi «una» Lear, Silvia Pasello, palpitante e dolente, o quel suo declinare in Cordelia, Maria Bacci Pasello, figlia d’arte, giovanissima, tenera e determinata, colei che col suo gesto di onestà e pietà filiale accende le polveri dell’irrituale (nello storico allestimento del Piccolo, Strehler piuttosto la dissolveva nel Matto, in entrambi i ruoli Ottavia Piccolo) quanto la selva di sipari, sette per l’esattezza.

Scene e costumi di Márcio Medina, che si rincorrono per tutto il tempo, si aprono e si chiudono, si piegano e si gonfiano, allertano, modulano, dispiegano e annullano lo spazio, scossi dalle musiche di Ares Tavolazzi, e ammainati alla fine come bandiere, cadaveri eccellenti e segnaletica impazzita, una giostra e un carosello, maschere e protagonisti essi stessi, a tenerci fuori e dentro della tragedia, sul modello di quanto faceva l’Amleto di Ljubimov negli anni Settanta.