La mostra dei marmi dei Torlonia ai Musei Capitolini (Palazzo Caffarelli) è frutto di un accordo tra la Fondazione Torlonia e il Ministero dei Beni Culturali. Apertasi il 14 ottobre scorso andrà avanti – Covid permettendo – fino al 29 giugno 2021.

Guardando la folla di quei marmi gelosamente custoditi nei sotterranei del Palazzo della Lungara dal «gattopardo» Alessandro Torlonia fino alla sua morte, mi viene in mente che il governo in carica (magari con le sue espressioni di “centrosinistra”) avrebbe potuto allestire anche una stanza dove proiettare l’altra folla, quella dei braccianti del Fucino, detti «ciarluttoni» (dal cencioso Charlot) che permisero con il loro sfruttamento l’ulteriore accumulo delle ricchezze della schiatta taroccata. Ignazio Silone, nel romanzo Una manciata di more li chiamava I Tarocchi.

IL PRINCIPE «collezionista» non li aveva tolti dalle baraccopoli dei paesi della Marsica attorno all’ex lago, magari regalando casette popolari asili nido, una vita decente. Quelle baracche di legno fradicio, costruite dopo il terremoto del 1915 erano un covo di topi, pulci e serpenti, dove si potevano vedere maialini allevati in cucina.

Nessun articolo uscito per la Mostra ha accennato, nemmeno di striscio. all’eccidio di Celano.

Ricordo bene quella domenica primaverile del 1950, quando i guardiani del «gattopardo», insieme ai fascisti del Msi spararono sulla folla radunata in piazza 4 novembre a Celano, uccidendone due e ferendone tanti.

Quegli spari mi ronzano ancora nell’ orecchio. Avevo sei anni e mano nella mano di mia madre, eravamo andati in piazza per sapere se dopo la riunione al Comune dei politici, anche mio pafre poteva tornare a lavorare nelle strade del Fucino, dopo aver fatto« lo sciopero alla rovescia», cioè la sistemazione delle strade allagate, gratis et amore.

CI FU UN FUGGI FUGGI generale. Si disse poi che quei colpi d’arma da fuoco erano diretti anche all’avvocato Cantelmi che era a capo del movimento dei braccianti della Marsica che con la parola d’ordine «la terra a chi la lavora» guidati dalla Cgil, chiedevano l’imponibile di nuova manodopera.

L’eccidio di Celano fece il giro del mondo. Luigi Pintor lo raccontò con i suoi reportage in dettaglio e sul posto, per l’Unità. Aveva assistito anche ai funerali, soffermandosi sulla particolare miseria delle case degli uccisi.

Ci fu anche un’interrogazione parlamentare, ma il principe «collezionista» uscì ancora una volta illeso e, nonostante i testimoni, nessuno pagò.

Ricco come Creso, con la sua banca con sede a Roma, che già tanto denaro per i potenti e per gli affari faceva circolare – era considerato il Rotschild italiano; e si concedeva di tanto in tanto, e in solitaria, la caccia all’orso bianco al Polo nord e quella alla volpe nelle sue tenute laziali.

Dopo un attentato subìto nella chiesa di Via Ripetta, da un suo mezzadro, ingiustamente da lui accusato di furto di bestiame in realtà razziato dai nazisti, quando aveva sotto i trent’anni, il principe-banchiere-collezionista volle diventare invisibile.

I giornali popolari disegnarono la scena, con la mano del nobiluomo che estraeva dalla giacca la sua pistola per reagire all’attentato. Il mezzadro, gli scaricò cinque colpi, ferendolo gravemente.

 

Celano, i funerali delle vittime dell’eccidio del 1950 ad opera dei guardiani dei Torlonia e dei fascisti del Msi

 

È rimasta del principe Torlonia una sola foto, per giunta ritagliata, mentre si trovava in Vaticano accanto al papa. Uno spilungone di due metri,con occhi scuri e orecchie a sventola. Teneva nascosta sua moglie proprio come nel Gattopardo di Tomasi Di Lampedusa; e i suoi saloni erano illuminati dalle candele, per risparmiare la luce.

In una Mercedes bianca si recava tutte le mattine nella sua banca a sorvegliare l’accumulo di denaro. Fece scandalo il suo testamento che diseredava un suo rampollo. Ho ancora negli occhi i contadini che sui trattori zeppi di bandiere rosse e i cortei delle mucche con i fazzoletti rossi al collo, che sfilavano per la provinciale. Puntavano alla residenza avezzanese dei Torlonia, cantando a squarciagola: «O Torlò scendi giù, vieni a fare i conti anche tu!».

MA ALLORA CHI erano i Torlonia? Il primo della saga veniva da Lione ed era un agricoltore. Scese a Roma nel 1750 e aprì un negozio di sete a Trinità dei Monti e una banca che prestava a strozzo alla nobiltà e ai cardinali.

Uno di loro gli lasciò la sua immensa eredità e lo fece principe. Si arricchì anche con le sontuose feste, piene di escort nobili, in cui faceva pagare salato un biglietto. Stendhal, che vi partecipò insieme a Goethe, Chateaubriand e Casanova, lo definì «taccagno».

Trafficava sia con Napoleone che con i reazionari. I discendenti seguirono quella linea fino al Torlonia a cui venne in mente di prosciugare il lago del Fucino. Riuscì dove non erano riusciti, in parte, gli imperatori romani.

Sotto il fascismo un altro Torlonia affittò al Duce la villa omonima a una lira al mese e aprì i suoi palazzi ai nazisti che trucidarono in quelle stanze i partigiani, come quelli della prima banda del Gobbo del Quarticciolo.

Nel primo dopoguerra erano riveriti dai governi democristiani, che solo dopo l’eccidio di Celano e quelli nel sud, furono costretti a dare le terre ai contadini.

Un capodanno, a casa del pittore Sergio Vacchi, conobbi un giovanissimo Torlonia, che ora vive a Parigi e fa lo stilista. Un ragazzo molto sciolto, che non sembrava avesse nulla del gattopardo. Non potei fare a meno di parlargli dell’avarizia di Alessandro Torlonia, che si era ulteriolmente arricchito sfruttando i braccianti del Fucino in maniera animalesca.

GLI RIFERII l’eccidio di Celano dettaglio, per averlo vissuto in prima persona, raccontando di me bambino accanto a uno degli uccisi, che era un mio parente alla lontana. Gli dissi anche che l’avvocato Cantelmi, il giorno prima dell’eccidio, aveva ricevuto gli scagnozzi del principe che volevano corromperlo offrendogli un posto nella banca romana. Era lui nel mirino, ma nascondendosi era riuscito a sfuggire a una morte sicura.

Gli accennai anche a una principessa che finì nel romanzo «Fratelli d’Italia» di Arbasino, che godeva della sua bellezza, non sospettando nemmeno della malvagità del gattopardo. Sia la letteratura neorealista che quella che voleva cancellarla, ignorarono il mandante dell’eccidio.

Mi rispose come se avesse ascoltato un pettegolezzo, che non ne sapeva niente, che si occupava di moda, lui. Che smemorati anche quelli della Fondazione Torlonia che hanno permesso di allestire la mostra dei loro marmi – bellissimi certo, e altrettatto sapientemente curati nella esposizione – senza un riferimento – un percorso di foto, un video, un pannello – alle nefandezze storiche del gattopardo.

E che smemorati il Ministero e il ministro dei Beni Culturali, che certe cose dovrebbe conoscerle.