Cercare una luce persino in un sordido contesto urbano di miseria sociale e umana: è il nuovo Arnaud Desplechin, è il suo Roubaix, une lumière, che il 1° luglio all’Arena Nuovo Sacher inaugura in prima italiana, alla presenza dell’autore, la X edizione dei Rendez-vous di Roma.

In lizza quest’anno nelle categorie miglior film e miglior regista ai César e ai Lumières, che hanno premiato per l’interpretazione lo straordinario Roschdy Zem, il film di Desplechin, in cartellone da quasi un anno a Parigi nel programma di Why Not Productions al Cinéma du Panthéon, scandaglia gli abissi dell’animo umano allargando lo sguardo dall’intimità della cerchia familiare della produzione precedente alla miseria del mondo d’oggi, prendendo a campione la città dov’è nato 60 anni fa trascorrendovi la fanciullezza: «Per la prima e unica volta nella mia vita – spiega il regista – ho solidarizzato con due criminali, riconsiderando le parole crude delle vittime-colpevoli come la più pura delle poesie».

Dopo La vie des morts e La Sentinelle (film del debutto anni 90, fatti conoscere in Italia dal fiorentino France Cinéma di Françoise Pieri e Aldo Tassone), dopo Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle), Esther Khan, Un conte de Noël, Les fantômes d’Ismaël, ecco un altro «Conte de Noël», stavolta squallido, che ha per teatro, ancora una volta, Roubaix: un colpo al cuore della miseria, un’anziana derubata di televisore e prodotti di cucina, uccisa da due giovani vicine (Léa Seydoux, Sara Forestier), tossiche, alcolizzate, amanti.

È il sussulto delle Feste in una routine di notti rossastre tra crimini appartati e sopravvivenza balorda: litigi di vicinato, truffe all’assicurazione, fuga di minorenne, stupro di ragazzina, incendio in un immobile. È Roubaix, è l’ombra (le riprese sono quasi tutte notturne : la città è avvolta in una cappa di buio), dove l’unica luce è la figura del commissario, figlio d’immigrati nordafricani, dal passato amaro, ma sempre pronto al sorriso e alla comprensione. « Roubaix è la città degli algerini. I maghrebini sono a Marsiglia – spiega Desplechin, cespuglio di capelli in tumulto, incontrato ai Rendez-vous di Unifrance, prima della cerimonia dei Prix Lumières trasmessa da Canal+ e dopo la bella personale che la Cinémathèque ha dedicato in autunno alla punta di diamante della post-Nouvelle Vague, la cosiddetta ‘génération Desplechin’, Vague anni 90 del giovane cinema francese e dei nuovi attori che ha rivelato.

Terra natale terra fatale, Arnaud Desplechin?
Roubaix è una città che non smetto di filmare con sensi di colpa – risponde il regista evocando quanto dichiarato nel 2015 alla Quinzaine a proposito di Trois souvenirs de ma jeunesse, poi premiato al Festival di Cabourg, ai Lumières e ai César –. Da ragazzo ho vissuto nella mia città in condizioni d’apartheid: nel mio liceo c’era il cortile con gli algerini e il cortile con i bianchi. Sto parlando degli anni 70… Non mi sono mai stancato di riscoprirla: stavolta lo faccio attraverso le ronde quotidiane d’un commissario. Che tristezza.

Il film è stato definito un poliziesco metafisico: come se Dostoevskij avesse scritto un’inchiesta di Maigret.
(risata) Pensi che il personaggio del commissario, che è più un ostetrico che un questore, figura monacale, solitaria, di grande perspicacia e umanità, ha suggerito questa interpretazione del film: è la storia d’un prete che diventa poliziotto. Cui ne è seguita un’altra: è la storia d’un poliziotto che diventa psicoanalista. Per me è l’Angelo di Wenders, del suo Il cielo sopra Berlino.

Il film si ispira a un fatto di cronaca, già divenuto documentario.
Sì, un documentario immersivo di Mosco Boucault, che ha fatto sensazione quando è stato trasmesso nel 2008 su France 3: è rimasto nella memoria di tutti perché ha seguito da cima a fondo un’inchiesta per omicido e ha raccolto la terribile confessione delle principali sospettate, due giovani indimenticabili.

Che cosa l’aveva conquistato?
La relazione tra le due giovani, alle quali ci si affeziona prima ancora di sapere che han commesso atti riprovevoli, fino all’irreparabile. Non riuscivo a ‘staccare’ dal loro mistero. Una è un po’ come Jeanne d’Arc: vuole ascendere al rogo. L’altra ha una nobiltà innata, come Tess d’Urberville. Jeanne d’Arc e Tess riunite: mica male per un inizio di fiction! Senza contare che è una storia dove si mescolano amore e ignominia, tradimento e follia: con un delitto che Marguerite Duras avrebbe potuto qualificare misteriosamente ‘sublime’.

Il film ricalca alla lettera il documentario, al punto che è stato definito un remake versante fiction. Perché?
È un’idea che mi viene dal teatro, probabilmente legata alla esperienza alla Comédie-Française, dove ho messo in scena Il padre di Strindberg. Ho considerato il documentario originale come un testo in tutto e per tutto, davanti a cui mi sono inchinato, riprendendolo tale e quale, a parte infime aggiunte. La tv non fa che mettere alla porta il testo. Io invece lo rispetto. L’arte della mise en scène è di servire un testo.

Lei fa il contropelo al genere poliziesco: non scova mostri ma esseri umani.
Al contrario della serie Mindhunter di David Fincher, su interrogatori di serial killers che paiono normalissimi ma nel fondo sono mostri, il mio commissario s’è dato il compito di riconoscere nell’indagato quel che non è che umano, troppo umano. Non chiede ‘perché’ ma ‘come’ : sospendere il ‘perché’ restituisce al sospettato la sua umanità. È qualcosa che troviamo in Delitto e castigo di Dovstoevskij. Raskol’nikov, colpevole d’assassinio, porta fortissimo in sé questo desiderio di confessare, di farsi prendere dall’ispettore: poliziotto e criminale tendono entrambi a una stessa verità. Incredibile come realtà e romanzo si assomiglino …

I cavalli paiono la sola oasi sana in una città malata. La scena della scuderia è l’unica in luce diurna.

Il commissario è un appassionato di cavalli. Li cura, li accarezza. Sono la sua consolazione, il suo distacco dalle preoccupazioni quotidiane della città. In più… non è necessario domarli, come Roubaix…