L’avventura umana di Masanobu Fukuoka è stata lunga ed avvincente. Ciò che ha vissuto, i cambiamenti intervenuti nel suo modo di concepire l’agricoltura, ma non solo, li ha raccontati in un libro che è diventato il testo caro a molti e in tantissime parti del mondo.
La sua The one straw revolution (la rivoluzione del filo di paglia) ha solcato i continenti, è arrivata anche qui, in Italia, ed ha lasciato fertilissimi epigoni.

SE DOVESSE MAI CAPITARVI, E SPERIAMO di sì, di imbattervi in strani orti, quasi installazioni artistiche a spirale e sopraelevate rispetto al suolo, cerchi magici dove erbe officinali e verdure, fiori e legumi convivono in consociazioni virtuose, significa che state ammirando degli «orti sinergici». Senza il passaggio di Fukuoka nel nostro paese, non ci sarebbero stati. Noterete la presenze tra una piantina e l’altra, anzi su tutto, di un vero e proprio trionfo di paglia.
Abbiamo conversato con Giannozzo Pucci, il suo editore italiano. Ci ha raccontato delle vere e proprie peripezie che questa traduzione ha comportato. Essendo stato arduo contattare l’editore giapponese per avere i diritti, si mosse Fosco Maraini, studioso esimio del paese del Sol Levante: finalmente si arrivò ad un accordo e la traduzione fu condotta dall’inglese, opera di Larry Korn.

INTERESSANTE E PROLIFICO DI FUTURI germogli fu il passaggio di Fukuoka in Italia. Fu naturalmente ad Ontignano, presso Firenze, dove ha sede la casa editrice, poi fu a Milano, ospite del centro naturale Il Girasole e a Pavia presso le Cascine Orsini di Giulia Mozzoni Crespi; poi fu a Montalto, da Paride Allegri, responsabile per le politiche agricole del comune di Reggio Emilia. E ancora fu in Veneto, a Preganziol dai signori Moro, e in Puglia, a Cisternino, nella Valle d’Itria. La rivoluzione del filo di paglia è un libro ed anche è un viaggio, è una narrazione ed una saga.

OVUNQUE SI RECASSE, IL SUO AUTORE non si limitava a presentare il libro ma, con i suoi ospiti, coltivava, usava vanghe e zappe. Racconta Giannozzo Pucci che c’era una differenza enorme nel modo in cui maneggiava gli attrezzi agricoli, analogo, dice, alla concezione diversa che hanno gli orientali nelle arti marziali: non voler prevalere con la forza bruta ma piuttosto accompagnarli con una danza. Anche nella coltivazione, Fukuoka, al lavioro tra i solchi, aveva una grazia ignota ai nostri contadini.

OGNI SUA RIFLESSIONE, MINUTA osservazione della natura, dai lombrichi alle anatre, agli alberi, al vento, ha costituito le basi di quel metodo che ancora oggi è seguito e con successo nel mondo. I suoi quattro pilastri – «niente lavorazioni profonde, niente concimi chimici, nessun diserbo né meccanico né, tanto meno, chimico, nessuna dipendenza dai pesticidi» – sono alla base della sua agricoltura naturale. L’uso della paglia, senza il quale il suo metodo non è praticabile, è spiegato e ben descritto. La paglia è quell’energia che proviene dalla terra ed alla terra deve tornare.

FUKUOKA SOSTIENE CHE IL SOLO USO dello spargere paglia sui campi mantenga la naturale fertilità dei suoli e prevenga la perdita di fertilità. Nel libro si alternano, numerose riflessioni e pensieri, non si tratta di un manuale nel senso classico del termine, è una vera e propria opera letteraria pregevole dove si rincorrono le idee ed i ricordi. Fukuoka respinge, dopo essere stato, e lo dice, un microbiologo qualificato, l’idea che la natura si possa segmentare o frazionare.

GIA’ CELEBRE IN VITA, INVITATO ad innumerevoli trasmissioni televisive, non si tirava indietro nel polemizzare aspramente con le idee correnti. Contestava ai funzionari del ministero dell’agricoltura il fatto che essi non cogliessero, ad esempio, il nesso tra l’uso dei pesticidi nei campi e la presenza del mercurio nei pesci, contestava radicalmente il loro non assumersi responsabilità ed il voler scaricare sulle spalle altrui le colpe. Se i veleni sono impiegati nei campi, per forza di cose vanno a finire nei mari e contaminano il pesce.

«LA RIVOLUZIONE DEL FILO DI PAGLIA» è uno di quei libri che si possono leggere anche aprendole pagine a caso, e ogni volta qualcosa illumina e invita a una riflessione profonda. Fukuoka, persona pacifica, dibatte aspramente contro la cecità di funzionari ed ispettori, e poi carezza benevolo e affettuoso quei ragazzi che sono diventati una piccola comunità che è venuta ad aiutarlo nella conduzione dei suoi terreni nell’isola più meridionale del Giappone, Shikoku. Senza il loro aiuto non ce l’avrebbe fatta, e questi, fuggiti come lui dalle città, lo ascoltano e lavorano.
E’ UN MAESTRO E UN VERO MAESTRO sa che senza degli allievi si parla al vento. Invece, questi, esattamente come continuano a fare anche a Cisternino, hanno imparato a fare palline d’argilla e a seminarle. A Edessa, nel nord della Grecia, dove Fukuoka è stato, Panos Manikis, con la messa in pratica dei «quattro pilastri» ha realizzato una vera e propria «food forest»: è una foresta composita nella quale si incontrano alberi da frutta ed alberi propri di un bosco, e, senza potare, senza arare, senza nemmeno irrigare, l’unico compito che rimane è quello di raccogliere i frutti. E si raccoglie frutta in abbondanza e anche ortaggi. Sappiamo che anche in quel luogo, proprio come a lezione da Fukuoka, giovani da ogni parte del mondo vanno e imparano.

EMILIA HAZELIP, IN ITALIA, HA EREDITATO da Fukuoka l’uso della paglia, la sua agricoltura sinergica è debitrice nei confronti di quel pensiero. Il maestro giapponese ha viaggiato per il mondo ed ha incontrato figure come Vandana Shiva, Ivan Illich. Ovunque andasse è riuscito ad approfondire il suo metodo, ha esteso la sua visione. Sono trascorsi dieci anni dalla sua scomparsa ma ancora sembrano scorrazzare le sue oche, le sue amate galline di razza locale shamo e chabo, predilette al posto delle straniere «più produttive»; possiamo udire stormire il vento sull’alto della sua collina tra le chiome dei pini. Dappertutto nel mondo, risuonano le sue parole. Fukuoka, in anticipo sui tempi e sui dibattiti attuali, avendo saputo che in una catena di negozi di cibo naturale a Tokio praticavano un ricarico troppo alto, si rifiutò di intrattenere con loro altri rapporti.

SE E’ STATO COSI’ AMATO E’ PERCHE’ ha avuto una visione chiara della relazione tra fertilità del suolo e vita degli animali e delle piante, ha studiato profondamente l’agricoltura tradizionale giapponese, quella precedente l’arrivo della agricoltura industriale e ne ha elaborato un’altra, la sua, quella agricoltura naturale che a distanza di tempo risulta la più convincente rispetto alle sfide dei cambiamenti climatici.
Quando venne il suo turno di presentarsi, ad Ontignano, spiegò il senso del suo nome – Di dritta fede, Montagna felice. Disse che il senso del suo viaggio era di svuotarsi, perché ciò che sta nel vuoto non pesa su di noi. Ci lascia il senso di una rivoluzione condotta con meditata leggerezza, la leggerezza di un unico filo di paglia.