«Come parla, le parole sono importanti!»: viene in mente la celebre reprimenda di Nanni Moretti sul bordo piscina di Palombella rossa (1989), film cult sulla crisi della sinistra, leggendo questo splendido libro di un accademico di Oxford, Siegbert Salomon Prawer, Karl Marx e la letteratura mondiale (a cura e con un saggio di Donatello Santarone, traduzione di Marco Papi, Bordeaux, pp. 494, euro 24), già uscito per Garzanti, con altro titolo, nel 1978, ma a quel tempo passato quasi inosservato.

Questa meritoria nuova edizione consente di riscoprire la radice letteraria del pensiero rivoluzionario, attraverso un’indagine che ha il pregio di seguire con rigore bibliografico tutto il percorso editoriale di Marx, ma con una leggerezza espositiva che fa di ogni citazione, di ogni metafora, di ogni riscrittura delle fonti un «gesto» non solo letterario ma anche politico, come parte dell’inesausta battaglia condotta da Marx, prima fra i banchi universitari e nelle redazioni dei giornali di mezza Europa, poi nelle assise del Partito o nella sua casa londinese, dov’era prassi leggere a voce alta Ariosto e le sorelle Brontë o scrivere alla moglie lettere d’amore citando Ovidio.

DALLA PUBBLICISTICA giovanile a L’ideologia tedesca (1846), da Miseria della filosofia (1847) al Capitale (1867), non c’è scritto di Marx che non sia colmo di citazioni attinte alla letteratura di ogni tempo: Eschilo, la Bibbia nella traduzione di Lutero, Dante, Machiavelli, Cervantes, Shakespeare, Defoe, Schiller, Goethe, Sue, ma persino Epicuro, Boiardo e i contemporanei tedeschi costituiscono un repertorio su cui il pensatore opera innumerevoli variazioni, secondo le proprie necessità, creando dei veri e propri «falsi d’autore».

Sotto la sua penna diventano materia plasmabile non solo le parole degli scrittori tedeschi, ma persino Dante (come avviene nella clausola della prefazione al Capitale), che Marx legge e trascrive in italiano, variandolo senza tradire il metro o lo stile. Non si tratta di una vanesia esibizione di doctrina, finalizzata a conquistare il pubblico: per lui è in ballo qualcos’altro sul piano della «persuasione» invece che su quello della «retorica», per recuperare un binomio caro a quella filosofia antica su cui si era laureato all’Università di Berlino.

SE LA BATTAGLIA rivoluzionaria inizia dalla costruzione di un pensiero antagonistico e se «le idee non esistono separate dal linguaggio» (com’egli scrive nei Grundrisse), allora bisogna dotarsi di un linguaggio affilato ed efficace come un’arma, la quale non può che essere forgiata nell’officina della letteratura mondiale.
Essa per Marx potenzia il linguaggio a più livelli, cominciando dalla semplificazione dei temi più complessi per il lettore, attraverso un immaginario condiviso: le numerose citazioni shakespeariane dal Timone d’Atene e dal Mercante di Venezia, per esempio, sono funzionali a mostrare il potere manipolatorio del danaro e la sua capacità di costruire un sistema di ruoli sociali fondati sul possesso e sulla capacità di acquisto non solo di oggetti, ma anche di un’immagine pubblica. In secondo luogo la letteratura offre una carrellata di maschere da far indossare ai bersagli della sua satira: Don Chisciotte, ad esempio, è l’epiteto che spetta a chi abbia uno scarso senso della realtà, «un modo di pensare antiquato», difendendo «eroicamente qualche causa perduta», come avviene quando non si fanno i conti con la trasformazione capitalistica e industriale, vagheggiando impossibili ritorni a un passato artigianale.

E SE È VERO che il filosofo ammira l’umorismo di Carlyle, attingendone qualche immagine per mettere in ridicolo il futuro kaiser Guglielmo, è vero anche che il romanticismo dello scrittore inglese gli appare goffo e antistorico, al punto da evocare «la moralità elementare del Flauto magico», il libretto scritto da Schikaneder per Mozart. Ma c’è un terzo scopo, meno contingente e caduco, raggiunto attraverso la letteratura: Marx si serve dei capolavori di ogni tempo per elaborare in forma concettuale i dati bruti dell’analisi economica, per trascendere, cioè, le osservazioni particolari e portarle su un piano universale e duraturo, in grado di non bruciarsi nello stretto giro della battaglia politica.

Gli esempi più clamorosi di questa consustanzialità fra ideologia e metafora si hanno nel Manifesto del partito comunista (1848), dove ironiche apparizioni di spettri e stregoni rievocano fiabe romantiche di Goethe e dell’amico Heine che non devono essere passate inosservate ai lettori del tempo.

L’idea di letteratura che emerge ci costringe a riflettere sul controverso rapporto fra struttura e sovrastruttura, in merito al quale già Engels e poi Gramsci dovettero esprimersi, per evitare che i contestatori del marxismo o i suoi continuatori troppo zelanti ne ricavassero un improprio automatismo.

È PROPRIO IL PECULIARE ricorso di Marx alla letteratura che ci aiuta a sciogliere questo nodo, e l’articolata postfazione di Donatello Santarone si intrattiene ottimamente sull’argomento: il fatto che le forme della produzione economica sorreggano e giustifichino le altre forme della produzione sociale (le istituzioni politiche e religiose, le arti, la letteratura e i costumi) è descritto piuttosto come la relazione fra fondamenta ed edificio sovrastante, il che però non significa che i dettagli dell’edificio siano condizionati permanentemente dalle fondamenta. La letteratura – tanto quanto la politica – è, dunque, sì una sovrastruttura, ma non il mero e inerte rispecchiamento della struttura economica.

Se questa natura non obbligata della sovrastruttura rende possibile che una nuova coscienza e un’organizzazione politica intervengano a modificare il modello della produzione (nel che risiederebbe lo scopo del movimento comunista), essa attribuisce alla letteratura anche l’opportunità di fare da «specchio oscuro», da autocritica inconsapevole della classe dominante di cui è espressione, svelandone i comportamenti, i vizi, perfino le paure e le debolezze, meglio di quanto potrebbe fare un pamphlet eversivo.

È quello che traspare, per esempio, nel Robinson Crusoe, letto come prefigurazione dell’alienazione e della solitudine che affligge la società capitalistica, un’interpretazione forse ancora più stimolante oggi, al tempo della atomizzazione e della privatizzazione dei conflitti sociali.

Ed è un carattere che emerge soprattutto nei romanzi di Dickens e di Balzac, il quale nel Capitale è tra le fonti predilette e più ammirate, poiché, nonostante il suo credo «conservatore e monarchico» è dotato di una rara capacità di penetrazione sociale, confermando che «i grandi scrittori possono avere intuizioni che trascendono le loro convinzioni e posizioni consapevoli».

L’AMPIEZZA internazionale dello sguardo letterario di Marx va di pari passo con la sua scoperta di un carattere globalizzato del capitalismo, che comporta forme di coscienza in grado di misurarsi su una larga scala, sulla scia della precocissima nozione di Weltliteratur che il filosofo riprendeva dal suo amato Goethe: l’obiettivo è quello dell’autoformazione di una sensibilità estetica accesa e raffinata che non spetta al borghese (troppo condizionato da una concezione utilitaristica della vita), bensì al proletario, che ne godrà pienamente non appena il suo tempo sarà «liberato» dal bisogno (come prevedeva nel 1875 la Critica al programma di Gotha, strizzando l’occhio agli Atti degli Apostoli) e potrà aver luogo la piena realizzazione soggettiva o, per dirla con le parole di Santarone, «lo sviluppo onnilaterale della persona».