Quando esce la ristampa di un disco importante e da lungo tempo irreperibile è festa, per chi ancora non ha abdicato alla «liquefazione della musica», dispersa – e più spesso perduta tout court – nei torrenti impetuosi e ottusi dei bit elettronici. Quando poi la ristampa riguarda non un solo disco ma un progetto, un nucleo di uscite, un’idea editoriale concretizzatasi in una «label», un’etichetta che quando nacque aveva solide ragioni sociali e politiche, oltre che estetiche, per presentarsi al mondo, è festa grande. Perché è come se tornasse a palesarsi, con l’immediata evidenza che hanno i supporti sonori, oggetti fisici e al contempo contenitori di ciò che di più immateriale esista, la musica – un’epoca intera. Nel primo cinquantennio di esistenza della discografia jazz «ufficiale» sono esistiti i casi di un paio d’etichette nate per volontà di afroamericani, da afroamericani gestite, e volte perlopiù alla documentazione del valore creativo di musicisti di quell’ambito. S’è parlato tempo fa su queste pagine della gloriosa Black Swan Records, attiva nella prima metà degli anni Venti del Novecento, e per nostra fortuna oggetto di ristampa in cd nel 1990. L’altra label, trent’anni dopo, fu la Debut di Mingus e Roach, due figure apicali che, come vedremo, c’entrano parecchio con l’oggetto di questo articolo. Torna adesso a farsi notare, in formato fisico, in cd e in ellepì, il nucleo incandescente delle esperienze di un’etichetta esplicitamente dedicata al jazz e al blues che, per molti versi, raccolse dopo poco più d’un quarto di secolo il testimone della Black Swan e della Debut andando a indagare nel contempo quelli che erano i bordi più affilati e urgenti della creatività jazz, bianco o nero che fosse, e facendo gioco di memoria e di documentazione su un altro ramo creativo del grande albero afroamericano, allora in piena riscoperta e destinato ad avere un’enorme influenza sul rock: il blues. L’etichetta fu chiamata (forse con una certa ironia) Candid, e aveva iniziato le danze discografiche nei primi anni Cinquanta, quando il bandleader e arrangiatore Archie Bleyer era riuscito, con una serie di colpi azzeccati, a capitalizzare in dollari sonanti la precedente esperienza della Cadence Records, che aveva sotto contratto gente lucrativa come Everly Brothers, Link Wray, Andy Williams; il redditizio ventaglio del pop e del primo rock di successo, insomma.

IL COLPO
Coi proventi Bleyer nel ’60 crea a New York la Candid Records, etichetta sussidiaria e «sperimentale» della Cadence. Il colpo piazzato è mettere alla direzione artistica e alla produzione Nat Hentoff, uno di quei critici musicali e giornalisti «radical» ben addentro al jazz e al blues che non poco stavano contribuendo a tenere accesa la brace del movimento per i diritti civili. Erano gli anni kennediani dei sit-in con bianchi e neri assieme a sfidare gli intolleranti, erano gli anni dei Freedom Riders, studenti bianchi e neri spalla contro spalla a occupare sale d’aspetto segregate, bar e stazioni nel pericolosissimo Sud degli Stati Uniti, dove spadroneggiavano gli orrendi cappucci dei razzisti sadici del Ku Klux Klan. Hentoff sarà il catalizzatore della Candid, rivolgendosi direttamente a quei musicisti neri suoi amici che ne ricambiavano la stima: Max Roach, Charles Mingus, Abbey Lincoln, Cecil Taylor, Booker Little, Don Ellis, in primis. Fu una fiammata di uscite effimera, ma impetuosa.
Nel ’64 non c’erano più danari per produrre nuovo jazz e nuovo blues, e Andy Williams, per proteggere il suo vecchio catalogo pop, rilevò la Cadence, col risultato di mettere in stato di quiescenza tutti quei titoli essenziali per capire lo snodo estetico, politico, sociale dei primi anni Sessanta. Alla fine degli anni Ottanta, Alan Bates della Black Lion riuscì di nuovo a rilevare il marchio, concentrandosi però su un nuovo catalogo e su nuovi artisti emergenti. Risultato: trecento nuovi titoli. Nel 2019 la Candid viene acquisita da Glem Barros, patron della Exceleration Music, un pesce di razza nel mare agitato delle etichette indipendenti, assai abile a circondarsi di gente col fiuto giusto, ma la notizia che ci sta a cuore è che arriva ora la prima infornata di ristampe pregiate (in long playing e in cd) dal primissimo catalogo Candid, premiata ditta Nat Hentoff, al cuore dei rapporti fra Civil Rights Movement, jazz e blues, rimasterizzazioni curate da un tecnico del suono scaltrito come Bernie Grundman. Le prime cinque uscite sono altrettanti colpi piazzati, e vanno a colmare bene un vuoto di decenni a stento riempito da precarie riedizioni in cd apparse e scomparse sul mercato con sospette intermittenze, o latitanze strategiche per nulla colmate dall’esoso mercato collezionistico delle stampe originali.
Il primo titolo fondamentale è sicuramente We Insist! Freedom Now Suite, splendido, durissimo e visionario titolo di Max Roach del ’60 che si avvalse in studio di un veterano come Coleman Hawkins al sax tenore, affiancato tra gli altri dalle saettanti e giovani energie di Booker Little, Julian Priester, la possente vocalist e attrice Abbey Lincoln, e tre percussionisti da Africa e Caraibi, apporto indispensabile del jazz. Copertina celeberrima con tre avventori neri al bancone di un bar che si fanno servire da un imbarazzatissimo barman bianco. Viaggio sonoro ai limiti dell’incandescenza, dalle frustate nelle piantagioni al Sudafrica contemporaneo dell’Apartheid.

FUORI I TITOLI
Da We Insist! discende, quasi di necessità, il meraviglioso Straight Ahead di Abbey Lincoln, 1961, formazione simile, ma con l’urgenza del flauto di Eric Dolphy e il pianoforte oscuro di Mal Waldron, curatore anche degli sfaccettati arrangiamenti: da lui arriva la musica per Left Alone, il cui testo, invece, è opera di Billie Holiday, la figura artistica di riferimento per Abbey e il suo modo di cantare attento alle microintonazioni fluttuanti. Un altro testo importante arriva in African Lady: l’autore qui è il massimo poeta afroamericano, Langston Hughes. Ma c’è anche spazio per Thelonious Monk, sincero ammiratore della Lincoln, che ricambia scrivendo il testo di Blue Monk. Il terzo recupero jazz da questa infornata di ristampe preziose è per Charles Mingus Presents Charles Mingus, registrazione tra le migliori del burrascoso bassista e compositore, dell’ottobre del ’60, con Ted Curson e un spiritato Eric Dolphy. Ci permette finalmente di riascoltare Fables of Faubus con il durissimo testo antirazzista declamato da Mingus stesso e dal batterista Dannie Richmond contro il governatore Orval Faubus, che aveva impedito con la forza l’accesso a scuola di ragazzi neri, nonostante una nuova legge antidiscriminatoria: «Fascista, razzista, suprematista disgustoso», si dice nel testo, su Mingus Ah Hum, 1959 clamorosamente espunto e censurato. E che dire di un brano che tradotto suona «Tutto ciò che potresti essere oggi se la moglie di Sigmund Freud fosse stata tua madre», costruito sullo scheletro armonico dello standard All The Things You Are? Basta l’enunciato.
Due i magnifici titoli blues Candid di peso ristampati, a cominciare dal Sam Lightnin’ Hopkins di In New York, 1961, dove il boogie blues dell’asprigno e incantatorio bluesman del Texas tocca vertici di scabra, ironica poesia, da gustarsi nella dimensione «solo» con voce, chitarra e pianoforte. L’Otis Spann di Otis Spann Is the Blues del 1960, in coppia con il chitarrista Robert Lockwood Jr, è il primo disco in assoluto voluto da Nat Hentoff per la Candid. Esordio in finezza e potenza assieme, per una storia breve, ma necessaria.